Mio padre Enrico 2003 |
Siamo qui perché mio padre è ricoverato in ospedale con poche possibilità di sopravvivere. Ha quasi 90 anni e una brutta emorragia cerebrale. Fino a pochi giorni prima faceva la vita di un sessantenne in forma: tanta strada a piedi, lunghe nuotate, canoa, lavoro in giardino e bricolage di ogni genere. Vederlo esangue in un letto non piace a nessuno di noi familiari, anche perché fino a pochi giorni fa scorrazzava per le vie della città come se avesse la metà dei suoi anni. Appena usciti da una visita all’ospedale, non siamo per nulla confortati dalle notizie sulla sua salute: è un lottatore nato che sta per essere sopraffatto da qualcosa più forte di lui.
Genova, bagni Cava, anni '50 |
L’alternativa del pranzo in trattoria mi è sembrata un modo
per distrarci.
Mentre aspettiamo, mia madre mi dice che non conosceva quella trattoria, o
meglio, non c’era mai entrata perché semmai pranzava da sua sorella che abitava
lì di fronte, nel palazzo adiacente all’ex mercato del pesce - quello in cui De
André registrò tra i banchi l’inizio di Creuza de Maa. Mentre attraversavamo la
strada, mia madre diceva: quante volte ho percorso questa strada da ragazza, con te per mano da piccolo e poi
con tua sorella, e poi da più grande lungo le vie del porto dove era cresciuta.
Ma lì dentro non era mai entrata. Il posto vanta un premio come miglior
produttore di pesto al mondo, mia madre è scettica.
Tambre 1964, io con mio padre |
Mi ricorda che 55 anni fa mi portava ai bagni Cava, poco distanti e che lì lei aveva imparato a nuotare. Ma come? La diga foranea del porto di Genova rappresentava la meta. In mezzo c’era il canale dove transitavano le navi del porto più trafficato del Mediterraneo. Le onde sollevate dai piroscafi costituivano una sfida. Si nuotava a stile libero e ci si riposava a cagnolino, mentre le navi passavano alzando onde e provocando correnti. Inimmaginabile oggi! I compagni di gioco di mia madre di poco più grandi di lei e delle sue amiche erano, tra gli altri, Egidio Cressi, Duilio Marcante e altri aspiranti uomini di mare in profondità che avrebbero messo le basi della storia delle attrezzature subacquee. Solitamente si avventuravano per primi lungo la traversata verso “U muiaggiun”, ovvero il termine della diga foranea dove c’era un piccolo faro. Quando si riuscivano a vedere le cupole della basilica di Carignano si era a buon punto.
Baunei anni '80 |
A volte, chi restava in spiaggia, ne approfittava per far visita alle borse dei nuotatori, lasciate nelle cabine dello stabilimento balneare, in cerca di qualche panino. Ci si raccontava di immersioni in apnea a grandi profondità e di esperimenti con respiratori collegati a scafandri ricavati dalle latte dell’olio da 5 litri su cui con lo stucco si applicava un vetro a fare da maschera.
La sfida non finiva lì, perché nell’acqua c’erano anche gli squali. Si, gli squali (i pescicheen)! Non era raro avvistare le verdesche, squali lunghi un paio di metri che terrorizzavano mia madre più d’ogni altra cosa. Poi c’era lo scoglio scaletta, così chiamato perché aveva diversi livelli d’altezza da cui tuffarsi. Oggi tutto questo mondo è stato inghiottito dalle strutture del porto e non ne resta traccia sul terreno, ma solo in questi racconti o in qualche sbiadita fotografia. Per questo li ascolto volentieri anche se li so quasi a memoria: c’è sempre un particolare in più che li arricchisce ogni volta.
L'attraversamento di Piazza Cavour |
Nel tavolo vicino al nostro una coppia di giovani napoletani ci ascolta facendo finta di niente. I foresti sono sempre intimoriti dai genovesi perché hanno fama di essere scorbutici e con un brutto carattere, e quindi non osavano attaccare discorso, ma si capiva che ascoltavano senza perdersi una virgola perché i racconti di mia madre erano incredibili. Sembravano le avventure di Sandokan, ma io che li ho sentiti decine di volte, sapevo che era tutto vero, anzi, conoscendo la modestia e il pragmatismo di mia madre, probabilmente c’era nella realtà una dose d’avventura superiore in tutto quello che stava raccontando. Mi diceva che quella breve scalinata che portava alla trattoria, una volta era di un altro marmo, più chiaro e consumato e una volta mio zio era scivolato giù in una giornata di pioggia, e che lì davanti, al Varco di Porta Siberia i contrabbandieri passavano di notte, col beneplacito dei finanzieri di guardia ai quali allungavano qualche moneta, con sacchi pieni di sigarette che poi rivendevano nei vicoli poco distanti.
Enrico Cominetti, Sestriére 1959 |
Il porto era un covo di delinquenti, prostitute e tagliagole e fino a non molti anni fa, aggirarsi nei suoi paraggi non era molto consigliabile. Oggi questa parte di porto è stata resa fruibile dalle opere di Renzo Piano che ha abbattuto molte barriere d’ogni tipo così che oggi è una zona molto frequentata dai genovesi e dai turisti.
Arrivano le trenette, sono buone e anche il pesto non scherza. Il titolare della trattoria, non appena un avventore lascia qualcosa di mancia, suona un campanaccio e urla: Manciaaaa! In modo che tutto il locale lo senta. Mia madre all’inizio si spaventa ma poi ride divertita. Si tratta di pochi spiccioli se l’avventore è locale e forse di qualcosa di più sostanzioso se quest’ultimo non lo è.
Libia, Kufra, mio padre (accosciato) nel Sahara 1968 |
Prima di pranzo, durante la mattinata le cose non sono state facili, anche se non tragiche. Per il montanaro quasi eremita che sono diventato, destreggiarmi nella giungla cittadina è ogni volta un’impresa e una presa di contatto con l’assurdo di un luogo dove si è costretti a vivere in molti in poco spazio. Parcheggiare l’auto fuori dall’ospedale richiede una ricerca in stile caccia al tesoro e quando finalmente trovi un posto scopri che il cartello che lo sorveglia è un divieto di qualche tipo e quindi continui a cercare lottando contro l’orario di visita che si accorcia sempre più. Siamo a metà febbraio 2020 e si sente parlare di un virus arrivato dalla Cina che si dice si stia diffondendo anche tra di noi. In ospedale ci fanno entrare solo un parente alla volta al capezzale di mio padre. Ci diamo il turno per stargli vicino, tenendogli una mano e bagnandogli le labbra arse da giorni dal divieto di ingerire qualsiasi liquido. Faccio fatica a trattenere le lacrime mentre scrivo queste parole. Ho davanti un carosello di immagini di mio padre giovane e forte che ho sempre visto come un eroe senza paura, che quando ero piccolo sapeva esattamente con cosa interessarmi. Una gita a un luogo misterioso, una storia appassionante, un percorso in fuoristrada dove nessuno osava andare, un lavoro da fare con le mani rischiando di farsi male, manovrare una gru dal braccio di 120 m. nel cantiere di cui era responsabile, ricevere in dono un cane, una gallina e una pecorella o un falco ferito. Ecco, questi erano i regali che mio padre faceva a mia sorella e a me. Non andava mai a comprarci un oggetto per farci un regalo. I suoi regali erano esperienze e che belli che erano quei regali! Non ti facevano sentire possessore di oggetti, ma ti facevano sentire amato. E poi c’erano gli scherzi che ci faceva spesso. Riusciva a essere severo e serio architettando scherzi d’ogni genere. Si arrabbiava di rado e aveva nel sangue l’avventura, caratteristica che lo rendeva interessante al popolo femminile con l’ovvio disappunto di mia madre.
Mio padre, mia sorella Ilaria e me 2019 |
Mentre questo collegamento si affievoliva sempre più, quel virus arrivato dalla Cina iniziava a spaventare un po’ tutti perché se ne parlava come di una minaccia e il primario del reparto decise di trasferire mio padre in una stanzetta tranquilla in modo da permetterci di visitarlo lo stesso. Negli altri reparti si iniziavano a vedere cartelli che vietavano l’accesso ai parenti e il personale ospedaliero era ogni giorno più nervoso e scontroso con chi andava lì già rattristato dal male che gli stava portando via qualcuno di caro.
Pride mia figlia Isa e i suoi nonni |
Una mattina medici e infermieri sembravano isterici e mi
vietarono assolutamente di avvicinarmi alla stanza dove si trovava mio padre.
Ordini dal Ministero della Sanità, dicevano. Non c’erano scuse, dovevo
andarmene e lasciare mio padre a morire da solo.
Arrivarono i rinforzi costituiti da mia madre, che meravigliata non si spiegava
perché non potesse stringere la mano dell’uomo della sua vita che stava
lottando con la morte, mia sorella, un tipino che se s’incazza è meglio
andarsene, e i miei nipoti, entrambi sempre eleganti perché al lavoro.
Costituita una momentanea unità di sfondamento ottenemmo dalla dottoressa di
turno di poter entrare in camera di mio padre nonostante il virus ormai
dilagasse ovunque e ci distribuimmo intorno al letto con la solita voglia
invana di portarci mio padre a casa. Quella sera non volevo andare a casa,
volevo restare lì con mio padre e lo feci passando la notte su una sedia e
tenendo la mia mano intorno alla sua ormai insensibile da qualche giorno,
gonfia e blu senza sangue, pesante e inerte.
Mio figlio Tommaso e suo nonno 1991 |
I miei genitori a Corte, Gennaio 2020 |
Il Galletto era uno scooter della Moto Guzzi che nei primissimi anni ’60 rappresentava il mezzo a motore della mia famiglia.
Moto Guzzi, Galletto, anni '60 |
Con mio padre alla guida, mia madre seduta dietro a lui di traverso e con me in piedi tra il conducente e il manubrio, al quale mi tenevo attraverso una barra applicata all’uopo, ce ne andavamo in giro per l’Italia. Il viaggio più lungo che facemmo fu, molto probabilmente, quello per raggiungere Tambre d’Alpago nel bellunese, dove viveva mia nonna paterna. Il viaggio durò due giorni, con tappa a Mantova per pernottare e fare un po’ di turismo di allora, che per mio padre significava trovare una buona trattoria tipica (a quei tempi c’erano ancora) e magari fare quattro chiacchiere con qualcuno del posto che avesse racconti interessanti da ascoltare. Quello era l’aspetto culturale di ogni nostro viaggio e ne facemmo tantissimi!
Con mia madre, in era Covid 19, Genova |
Con mio figlio Tommaso in pellegrinaggio ciclistico nei luoghi d'origine di mio padre 2020 |
Con mia moglie Marta 2020 |
I funerali erano vietati. Marta ed io inseguimmo in vespa come di nascosto il carro funebre fino alle porte del cimitero di Staglieno dove i guardiani impedivano a chiunque di entrare. Erano le norme anti Covid 19 che di lì a poco avremo conosciuto più approfonditamente, ma al momento, era l’11 Marzo, eravamo troppo frastornati per ricordarci che dovevamo indossare una mascherina chirurgica che infatti non avevamo anche perché erano introvabili.
Un anziano prete dall’aria spaesata continuava a dire che era tutto ingiusto mentre con un’acquasantiera benediva le bare ricoperte di fiori che arrivavano numerose. “Almeno questo”, ci diceva, tra i guardiani e i vigili urbani che disperdevano i convenuti per evitare assembramenti pericolosi. Era difficile da capire, giuro.
Capii che la mia vita aveva preso una svolta quando il pesante portone metallico del camposanto si chiuse dietro la Mercedes scura che trasportava il corpo di mio padre.
Ciao alpino! |