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Mio padre Enrico 2003
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Schiacciati dal basso soffitto a volte di un palazzo
secolare di Genova, ce ne stiamo in una trattoria di Piazza Cavour, mia madre
ed io. Aspettiamo un piatto di trenette al pesto. Mia madre non va volentieri
al ristorante perché cucina benissimo e, soprattutto se si tratta di pesto, è
molto esigente perché lei fa quello che probabilmente è il migliore al mondo.
Ma questo lo sostengo io e i pochi che lo hanno assaggiato.
Siamo qui perché mio padre è ricoverato in ospedale con poche possibilità di
sopravvivere. Ha quasi 90 anni e una
brutta emorragia cerebrale. Fino a pochi giorni prima faceva la vita di un
sessantenne in forma: tanta strada a piedi, lunghe nuotate, canoa, lavoro in
giardino e bricolage di ogni genere. Vederlo esangue in un letto non piace a
nessuno di noi familiari, anche perché fino a pochi giorni fa scorrazzava per
le vie della città come se avesse la metà dei suoi anni. Appena usciti da una
visita all’ospedale, non siamo per nulla confortati dalle notizie sulla sua
salute: è un lottatore nato che sta per essere sopraffatto da qualcosa più
forte di lui.
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Genova, bagni Cava, anni '50 |
L’alternativa del pranzo in trattoria mi è sembrata un modo
per distrarci.
Mentre aspettiamo, mia madre mi dice che non conosceva quella trattoria, o
meglio, non c’era mai entrata perché semmai pranzava da sua sorella che abitava
lì di fronte, nel palazzo adiacente all’ex mercato del pesce - quello in cui De
André registrò tra i banchi l’inizio di Creuza de Maa. Mentre attraversavamo la
strada, mia madre diceva: quante volte ho percorso questa strada da ragazza, con te per mano da piccolo e poi
con tua sorella, e poi da più grande lungo le vie del porto dove era cresciuta.
Ma lì dentro non era mai entrata. Il posto vanta un premio come miglior
produttore di pesto al mondo, mia madre è scettica.
Mi ricorda che 55 anni fa mi portava ai bagni Cava, poco
distanti e che lì lei aveva imparato a nuotare. Ma come? La diga foranea del porto di Genova
rappresentava la meta. In mezzo c’era il canale dove transitavano le navi del porto
più trafficato del Mediterraneo. Le onde sollevate dai piroscafi costituivano
una sfida. Si nuotava a stile libero e ci si riposava a cagnolino, mentre le
navi passavano alzando onde e provocando correnti. Inimmaginabile oggi! I
compagni di gioco di mia madre di poco più grandi di lei e delle sue amiche
erano, tra gli altri, Egidio Cressi, Duilio Marcante e altri aspiranti uomini
di mare in profondità che avrebbero messo le basi della storia delle
attrezzature subacquee. Solitamente si avventuravano per primi lungo la
traversata verso “U muiaggiun”, ovvero il termine della diga foranea dove c’era
un piccolo faro. Quando si riuscivano a vedere le cupole della basilica di
Carignano si era a buon punto.  |
Baunei anni '80 |
A volte, chi restava in spiaggia, ne approfittava per far visita alle borse dei
nuotatori, lasciate nelle cabine dello stabilimento balneare, in cerca di
qualche panino. Ci si raccontava di immersioni in apnea a grandi profondità e
di esperimenti con respiratori collegati a scafandri ricavati dalle latte dell’olio
da 5 litri su cui con lo stucco si applicava un vetro a fare da maschera.
La sfida non finiva lì, perché nell’acqua c’erano anche gli squali. Si, gli
squali (i pescicheen)! Non era raro avvistare le verdesche, squali lunghi un
paio di metri che terrorizzavano mia madre più d’ogni altra cosa. Poi c’era lo
scoglio scaletta, così chiamato perché aveva diversi livelli d’altezza da cui
tuffarsi. Oggi tutto questo mondo è stato inghiottito dalle strutture del porto
e non ne resta traccia sul terreno, ma solo in questi racconti o in qualche
sbiadita fotografia. Per questo li ascolto volentieri anche se li so quasi a
memoria: c’è sempre un particolare in più che li arricchisce ogni volta. |
L'attraversamento di Piazza Cavour
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Nel tavolo vicino al nostro una coppia di giovani napoletani ci ascolta facendo
finta di niente. I foresti sono sempre intimoriti dai genovesi perché hanno
fama di essere scorbutici e con un brutto carattere, e quindi non osavano
attaccare discorso, ma si capiva che ascoltavano senza perdersi una virgola
perché i racconti di mia madre erano incredibili. Sembravano le avventure di
Sandokan, ma io che li ho sentiti decine di volte, sapevo che era tutto vero,
anzi, conoscendo la modestia e il pragmatismo di mia madre, probabilmente c’era
nella realtà una dose d’avventura superiore in tutto quello che stava
raccontando. Mi diceva che quella breve scalinata che portava alla trattoria,
una volta era di un altro marmo, più chiaro e consumato e una volta mio zio era
scivolato giù in una giornata di pioggia, e che lì davanti, al Varco di Porta
Siberia i contrabbandieri passavano di notte, col beneplacito dei finanzieri di
guardia ai quali allungavano qualche moneta, con sacchi pieni di sigarette che
poi rivendevano nei vicoli poco distanti. |
Enrico Cominetti, Sestriére 1959
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Il porto era un covo di delinquenti, prostitute e tagliagole e fino a non molti
anni fa, aggirarsi nei suoi paraggi non era molto consigliabile. Oggi questa
parte di porto è stata resa fruibile dalle opere di Renzo Piano che ha
abbattuto molte barriere d’ogni tipo così che oggi è una zona molto frequentata
dai genovesi e dai turisti.
Arrivano le trenette, sono buone e anche il pesto non scherza. Il titolare
della trattoria, non appena un avventore lascia qualcosa di mancia, suona un
campanaccio e urla: Manciaaaa! In modo che tutto il locale lo senta. Mia madre
all’inizio si spaventa ma poi ride divertita. Si tratta di pochi spiccioli se
l’avventore è locale e forse di qualcosa di più sostanzioso se quest’ultimo non
lo è. |
Libia, Kufra, mio padre (accosciato) nel Sahara 1968
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Prima di pranzo, durante la mattinata le cose non sono state facili, anche se
non tragiche. Per il montanaro quasi eremita che sono diventato, destreggiarmi
nella giungla cittadina è ogni volta un’impresa e una presa di contatto con
l’assurdo di un luogo dove si è costretti a vivere in molti in poco spazio.
Parcheggiare l’auto fuori dall’ospedale richiede una ricerca in stile caccia al
tesoro e quando finalmente trovi un posto scopri che il cartello che lo
sorveglia è un divieto di qualche tipo e quindi continui a cercare lottando
contro l’orario di visita che si accorcia sempre più. Siamo a metà febbraio
2020 e si sente parlare di un virus arrivato dalla Cina che si dice si stia
diffondendo anche tra di noi. In ospedale ci fanno entrare solo un parente alla
volta al capezzale di mio padre. Ci diamo il turno per stargli vicino,
tenendogli una mano e bagnandogli le labbra arse da giorni dal divieto di
ingerire qualsiasi liquido. Faccio fatica a trattenere le lacrime mentre scrivo
queste parole. Ho davanti un carosello di immagini di mio padre giovane e forte
che ho sempre visto come un eroe senza paura, che quando ero piccolo sapeva
esattamente con cosa interessarmi. Una gita a un luogo misterioso, una storia
appassionante, un percorso in fuoristrada dove nessuno osava andare, un lavoro
da fare con le mani rischiando di farsi male, manovrare una gru dal braccio di
120 m. nel cantiere di cui era responsabile, ricevere in dono un cane, una
gallina e una pecorella o un falco ferito. Ecco, questi erano i regali che mio
padre faceva a mia sorella e a me. Non andava mai a comprarci un oggetto per
farci un regalo. I suoi regali erano esperienze e che belli che erano quei
regali! Non ti facevano sentire possessore di oggetti, ma ti facevano sentire
amato. E poi c’erano gli scherzi che ci faceva spesso. Riusciva a essere severo
e serio architettando scherzi d’ogni genere. Si arrabbiava di rado e aveva nel
sangue l’avventura, caratteristica che lo rendeva interessante al popolo
femminile con l’ovvio disappunto di mia madre.
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Mio padre, mia sorella Ilaria e me 2019
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Quel letto d’ospedale ora gli stava proprio male, ma almeno
le infermiere più premurose lo circondavano d’affetto e carinerie per sopperire
alla sua quasi totale immobilità. La coscienza lo visitava a momenti così come
lo abbandonava in altri, facendoci capire che trascorreva lunghi periodi in un
mondo lontano dal nostro dove solo lui sapeva cosa succedeva. Una bolla di
sangue dal diametro di 12 cm nel suo cervello provocava la rivoluzione tra i
neuroni e la sua vita scorreva di certo nel caos di quello che impulsi
incontrollabili inviavano a quella piccola parte di ragione che rappresentava
l’ultimo collegamento con noi.
Mentre questo collegamento si affievoliva sempre più, quel
virus arrivato dalla Cina iniziava a spaventare un po’ tutti perché se ne
parlava come di una minaccia e il primario del reparto decise di trasferire mio
padre in una stanzetta tranquilla in modo da permetterci di visitarlo lo
stesso. Negli altri reparti si iniziavano a vedere cartelli che vietavano
l’accesso ai parenti e il personale ospedaliero era ogni giorno più nervoso e
scontroso con chi andava lì già rattristato dal male che gli stava portando via
qualcuno di caro. |
Pride mia figlia Isa e i suoi nonni
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Una mattina medici e infermieri sembravano isterici e mi
vietarono assolutamente di avvicinarmi alla stanza dove si trovava mio padre.
Ordini dal Ministero della Sanità, dicevano. Non c’erano scuse, dovevo
andarmene e lasciare mio padre a morire da solo.
Arrivarono i rinforzi costituiti da mia madre, che meravigliata non si spiegava
perché non potesse stringere la mano dell’uomo della sua vita che stava
lottando con la morte, mia sorella, un tipino che se s’incazza è meglio
andarsene, e i miei nipoti, entrambi sempre eleganti perché al lavoro.
Costituita una momentanea unità di sfondamento ottenemmo dalla dottoressa di
turno di poter entrare in camera di mio padre nonostante il virus ormai
dilagasse ovunque e ci distribuimmo intorno al letto con la solita voglia
invana di portarci mio padre a casa. Quella sera non volevo andare a casa,
volevo restare lì con mio padre e lo feci passando la notte su una sedia e
tenendo la mia mano intorno alla sua ormai insensibile da qualche giorno,
gonfia e blu senza sangue, pesante e inerte.
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Mio figlio Tommaso e suo nonno 1991
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Un infermiere dall’iniziale aria distaccata si rivolse a me
nella notte con belle parole invitandomi ad andarmene a casa anche se capiva
perché stavo lì e quindi non insisteva. Mio padre aveva gli occhi spalancati e
guardava fisso in una sola direzione, sempre la stessa, in alto a sinistra,
come il titolo di un libro del mio amico Erri De Luca. In alto a sinistra, mi
ripetevo, che in un racconto del libro indica un’uscita di emergenza. Come
avrei voluto trovarla quella notte un’uscita d’emergenza e scappare con mio
padre in spalla ricambiandogli lo sforzo che lui aveva fatto tante volte quando
sulle sue spalle stavo io da piccolo, abbarbicato al mio pilastro preferito. O
da adulto, quando lo contrariavo per sentirmi più forte di lui riconoscendo,
anche a distanza di anni, che aveva ragione. Mio padre ha sempre avuto ragione
su tutte le cose di cui discutevamo. Posso dire che le cose su cui avrebbe
potuto avere torto non le consideravamo affatto. Ci piaceva, forse di più a me,
dibattere sulle cose che lui aveva chiare e che io credevo di avere più chiare
di lui. Mi sono sbagliato ogni volta e quando gliel’ho detto, avevo già più di
cinquant’anni, mi ha guardato con quella sua aria da “te l’avevo detto io” che
però, saggiamente, non ha pronunciato. |
I miei genitori a Corte, Gennaio 2020
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Quella mattina ero, per copiare Erri, come “biglia di
flipper”, quando me ne andai da mia madre per dirle falsamente che la notte era
andata bene. Ci fu ancora un tardo pomeriggio in cui l’unità di sfondamento era
ulteriormente rinforzata dalla presenza di Marta, mia moglie. Mia madre
massaggiava alternativamente le mani a mio padre, che ormai se ne era andato
nel suo mondo da qualche giorno, come per compiere un dovere istintivo verso
l’unico uomo della sua vita. Noialtri si discuteva di varie cose quando venne
fuori la storia del Galletto.
Il Galletto era uno scooter della Moto Guzzi che nei
primissimi anni ’60 rappresentava il mezzo a motore della mia famiglia.
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Moto Guzzi, Galletto, anni '60 |
Con mio
padre alla guida, mia madre seduta dietro a lui di traverso e con me in piedi
tra il conducente e il manubrio, al quale mi tenevo attraverso una barra
applicata all’uopo, ce ne andavamo in giro per l’Italia. Il viaggio più lungo che
facemmo fu, molto probabilmente, quello per raggiungere Tambre d’Alpago nel
bellunese, dove viveva mia nonna paterna. Il viaggio durò due giorni, con tappa
a Mantova per pernottare e fare un po’ di turismo di allora, che per mio padre
significava trovare una buona trattoria tipica (a quei tempi c’erano ancora) e
magari fare quattro chiacchiere con qualcuno del posto che avesse racconti
interessanti da ascoltare. Quello era l’aspetto culturale di ogni nostro
viaggio e ne facemmo tantissimi!
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Con mia madre, in era Covid 19, Genova |
Anche in futuro, con mia sorella che nel
frattempo ci aveva raggiunti, e tutti e quattro insieme restammo fermi nello
stesso posto davvero poco tempo, perché in viaggio si era costantemente. Tra
buone trattorie, fondamentali, e qualche vulcano, siti archeologici, nuraghi
sardi, trulli pugliesi, catacombe sicule, anfiteatri romani (quelli poi…). Mio
padre credeva nella reincarnazione e ne parlava spesso. Non era credente ma era
convinto che l’anima se ne andasse da qualche parte, possibilmente dove ci
fosse anche una buona trattoria. Non l’ho mai sentito chiamare un luogo che
servisse piatti caldi col nome di ristorante. |
Con mio figlio Tommaso in pellegrinaggio ciclistico nei luoghi d'origine di mio padre 2020 |
I miei nipoti non avevano mai sentito parlare del Moto Guzzi
Galletto e io cercavo di descriverglielo. Aveva le ruote di una moto, la
carrozzeria di una specie di Vespa un po’ più massiccia e allungata, una ruota
di scorta tra lo scudo e la forcella anteriore, quello del nonno era color
sabbia e aveva un motore a 4 tempi, lento e inesorabile. tun, tun, tun, avete
presente? Era il mezzo preferito dai parroci di campagna e dai veterinari e il
motore aveva la cilindrata di… mmmhh, quanti centimetri cubici? Mi sembra 150,
ma certi modelli avevano un motore poco più grande, forse 160 cm3. Addirittura
c’era una terza motorizzazione ma non ne sono sicuro, forse quello del nonno
era uno degli ultimi prodotti e il motore era, era..? Mentre cercavo di ricordare la cilindrata
possibile ci fu uno di quei momenti di silenzio che nel mezzo del brusio ogni
tanto accadono per puro caso e, in quello, mio padre, con voce decisa come suo
solito disse: centonovantadue!
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Con mia moglie Marta 2020
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Ci sembrava di averlo sognato, ma l’aveva detto davvero
perché tutti l’avevamo sentito chiaramente. Fu l’ultima parola che sentii
pronunciare, e inaspettatamente, da mio padre, che ci lasciò pochi giorni dopo.
Quando non si poteva già più entrare in ospedale e lui se ne sarà stato nella
sua stanzetta tutto solo eccetto quando le solite infermiere lo accudivano per
il minimo sindacale giornaliero. Chissà se avrà detto qualcos’altro, in quella
sua lunga notte caleidoscopica in cui magari lo potevano ascoltare cavalli
alati siculi o gnomi del bosco partenopei, i protagonisti dei suoi racconti con
cui ipnotizzava i nipoti che quando scoprirono da più grandi che si trattava di
racconti di fantasia si pentirono di essere cresciuti. Non lo sapremo mai.
I funerali erano vietati. Marta ed io
inseguimmo in vespa come di nascosto il carro funebre fino alle porte del
cimitero di Staglieno dove i guardiani impedivano a chiunque di entrare. Erano
le norme anti Covid 19 che di lì a poco avremo conosciuto più
approfonditamente, ma al momento, era l’11 Marzo, eravamo troppo frastornati
per ricordarci che dovevamo indossare una mascherina chirurgica che infatti non
avevamo anche perché erano introvabili.
Un anziano prete dall’aria spaesata continuava a dire che
era tutto ingiusto mentre con un’acquasantiera benediva le bare ricoperte di
fiori che arrivavano numerose. “Almeno questo”, ci diceva, tra i guardiani e i
vigili urbani che disperdevano i convenuti per evitare assembramenti pericolosi.
Era difficile da capire, giuro.
Capii che la mia vita aveva preso una svolta quando il
pesante portone metallico del camposanto si chiuse dietro la Mercedes scura che
trasportava il corpo di mio padre.
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Ciao alpino!
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