martedì 15 maggio 2018

QUELLI CHE IL CERRO TORRE (di Marta Trucco)


Già pubblicato su GQ di Novembre 2014
 
Guido Grando "Herreria El Chaltén"
“All'improvviso tutta l'adrenalina e l'energia che mi avevano condotto fin qui si dissiparono, e io mi sentii nudo e fragile, come fossi diventato in un istante mio nonno, e mio padre, e mia madre. E tutta la paura che loro  avevano provato per me, per la mia vita, mi si rovesciò addosso”.
Ecco cosa racconta di aver provato l'alpinista italo-argentino Rolando Garibotti sulla cima del Cerro Torre nel gennaio del 2008, dopo aver portato a termine, insieme all'americano Colin Haley, un'impresa epica: la traversata, passando per le cime, delle  montagne che vanno sotto il nome Gruppo del Torre: Aguja Standhart, Punta Herron, Torre Egger e Cerro Torre. Una traversata che in pochi, prima di allora, avevano immaginato possibile e che nessuno dopo Garibotti e Haley ha mai più ripetuto.
Doerte Pietron e Rolando Garibotti
Una corsa durata quattro giorni e quattro notti su difficoltà sempre estreme, lungo pareti verticali ricoperte da strati  di ghiaccio sottile, senza nessun riparo da un vento che spazza via e dalle scariche che piombano improvvise dagli immensi funghi di ghiaccio e neve che ricoprono le sommità. E senza via d'uscita che non sia la cima del Cerro Torre.
E qui basti pensare che, fino a poche decine di anni fa, il Cerro Torre - sono stati i Ragni di Lecco, nel gennaio del 1974, la prima cordata ad aver raggiunto la cima del fungo di ghiaccio del Torre - era considerata la montagna impossibile ed è tuttora ritenuta tra le più difficili del mondo.
Cerros Torre e Egger ricoperti di neve dopo una tempesta
 
Siamo nel cuore delle Ande Patagoniche, terre da sempre meta di avventurieri,  uomini e donne, che vogliono scalare montagne,  attraversare ghiacciai o raggiungere luoghi dove non è stato nessuno.
Fino agli inizi del secolo scorso buona parte di questo territorio era completamente inesplorata, e fu un italiano, Padre Alberto Maria de Agostini, il primo a realizzare un' accuratissima carta della Patagonia meridionale che colmò le numerose macchie bianche delle mappe precedenti. Si era imbarcato come missionario per il Sud del continente americano, e con la scusa di portare agli indios il Vangelo, esplorò in lungo e in largo la Cordillera delle Ande australi scalando montagne alle quali dette il nome (Cerro Pier Giorgio, Cerro Pollone, suo paese natale, Cerro Cagliero ...) e attraversando  i ghiacciai. “Si può essere un buon salesiano e un buon geografo”, diceva. 
Padre A. De Agostini

Da allora nulla del paesaggio intorno al Cerro Torre è cambiato, è soltanto molto più facile arrivare ai confini di quelle terre remote. Bastano quattro ore di volo da Buenos Aires a cui vanno aggiunte tre di autobus e così, lentamente,  si ha modo di abituare gli occhi a quei luoghi dove la natura da spettacolo. Laghi azzurro-verdi che sembrano mare da tanto sono immensi, fiumi che solcano con impeto valli di origine glaciale, e steppa steppa steppa finché la strada vira verso Nord e, se il tempo è bello, contro il cielo si staglia il profilo di montagne bellissime e spaventose.


La strada e la civiltà finiscono a El Chaltén, piccolo paese di 1500 abitanti,   fondato vent'anni fa dall'ultima generazione di pionieri, gente che si è costruita la casa con le proprie mani in un luogo dal clima impietoso ma dove non mancano spazi e libertà per cominciare una nuova vita.
Il Fitz Roy da Nord

A El Chaltén fanno base gli alpinisti che vengono da ogni dove per scalare le montagne, o per dare il nome a quelle che ancora non ce l'hanno.
Non sono di quelli che fanno conferenze stampa prima di partire: non è la gloria che cercano ma la sfida con se stessi, perché chi si avventura in quelle terre remote, può contare solo sulle proprie forze e sulla propria determinazione. E' un mondo, il loro, in cui la competizione resta sullo sfondo, e quello che conta sono cose rare. Tra queste la ricerca della bellezza: “Le guglie hanno le forme caotiche ed eleganti di una cattedrale di Gaudì, dice Rolando Garibotti a proposito del
La skyline dalla Lagunas Gemelas
Gruppo del Torre. “Lungo le pareti verticali si avvitano linee e sul granito dorato arabeschi di neve simili a viticci proiettano ombre blu.  La skyline di queste montagne, stupenda e terribile, ha la geometria  più attraente che io abbia mai visto: bella, ovvia e difficilissima”.  “Non ho mai visto una montagna più bella”, gli fa eco Doerte Pietron, tedesca 33 anni, compagna di Garibotti nella vita, prima donna al mondo ad aver ripetuto la via aperta dai Ragni di Lecco e unica donna ad aver scalato il Cerro Torre due volte. 
Incerto Mattino verso il Fitz Roy
Non si sentono dei super-eroi, dicono che più che la tecnica, l'allenamento, il talento, la preparazione, la consapevolezza, conta la motivazione, è quella che spinge a superare difficoltà così elevate e patimenti tanto duri: il freddo, il vento, la fatica, le notti insonni, la paura. Garibotti ricorda che durante le lunghe notti in parete si chiedeva cosa lo aveva spinto fino a quel punto, a dover correre rischi così alti e lasciare da parte le certezze, l'amore, gli affetti. “La mattina, però, sapevo di non avere scelta: ciò che stava sopra di me aveva un’attrazione maggiore di quello che stava sotto”. “Ci vuole anche una buona dose di fortuna”, aggiunge Doerte. “Trovare buone condizioni. Ma la motivazione ti spinge a tornare, se la prima volta non hai avuto fortuna. Anche la paura è uno stimolo, ma delle volte ti fa tornare indietro, e magari ti salva la vita”.
Visuale aerea del massiccio Torre-Fitz Roy
Con la traversata del Gruppo del Torre del 2008 sembra caduto anche l'ultimo tabù, dopo la prima invernale, la prima solitaria, la prima femminile... “L'epoca della conquista è passata, dice Garibotti, ma ogni nuova generazione definisce i “pali della porta”. La porta si fa sempre più stretta e più difficile sarà fare gol, ma c'è ancora tantissimo da tentare, il futuro va verso l'arrampica libera: due persone, una corda, nessun ricorso all'artificiale”. 

Scalando un un "tubo" nel ghiaccio del Cerro Torre
Molti dei giovani alpinisti che arrivano a El Chaltén vanno a casa di Rolando e Doerte per chiedere consigli, guardare le carte, consultare le previsioni del tempo, capire se si può contare su una brecha, una finestra di bel tempo, in modo da essere al momento giusto nel posto giusto, perché il bel tempo difficilmente dura più di due giorni, e questa variabile alza a dismisura il livello della difficoltà e del rischio. E anche perché ci sia qualcuno che sappia entro quando, al massimo, dovrebbero fare ritorno -il calcolo è presto fatto dal momento che El Chalten è l'ultimo punto dove si può fare rifornimento e da lì si parte a piedi con tutto il carico sulle spalle. 
Bosco di faggi australi (nothofagus antartica)

C'è anche un'altra dimensione in quei luoghi, quando non si ha l'obiettivo di scalare montagne. Gli alpinisti amanti dell'avventura vera, quella che non sai cosa c'è dietro l'angolo, possono fare la Vuelta del Torre, un percorso dal sapore polare attraverso lo Hielo Continental Sur e intorno al Gruppo del Torre e del Fitz Roy, che richiede più che altro grandi capacità di adattarsi all'isolamento e a condizioni ambientali che possono esser molto, molto ostili. “Ma laggiù ogni sforzo sarà ripagato semplicemente lasciando vagare il cuore in un paesaggio solenne e misterioso, abitato dai contrasti più sorprendenti e dalle più straordinarie manifestazioni del bello. E quello che si prova, alla fine, è un grande senso di libertà”, parola di Marcello Cominetti, Guida alpina
Lucco, Cominetti e Salvaterra e sullo sfondo il gruppo del Torre
e alpinista che quei posti li frequenta da più di trent'anni. Allora El Chaltén non esisteva, c'era solo una casa con il tetto giallo e un gaucho, Don Rodolfo Guerra,  che c'è ancora ed è l'unico vecchio del paese. “Era tutto più complicato dal punto di vista logistico ma c'erano anche molte meno regole e più libertà d'azione. Se uno arrivava con dei chiodi, un'accetta, una sega e un martello, si poteva costruire una casa”.
Cominetti e Sandro Pansini sul Fitz Roy 1992
Marcello Cominetti è stata la prima Guida a portare clienti a scalare le grandi montagne, con uno di loro ha raggiunto nel 1992 la cima del Fitz Roy, ma se gli chiedete come ha fatto vi risponderà che è stato fortunato - e con questo intende dire che ha avuto tempo buono.
Lucco e Salvaterra, Via Californiana al Fitz Roy

Ora è appena cominciata l'estate nelle terre australi e poche settimane fa  (il 6 ottobre) già una prima cordata ha scalato la parete Ovest del Cerro Torre e raggiunto la cima: erano gli italiani Ermanno Salvaterra (autore della prima invernale sul Torre e di numerose altre aperture) Thomas Franchini e Nicola Binelli. 
Mentre l'ultima impresa che forse si può paragonare per straordinarietà a quella compiuta da Garibotti e Haley nel 2008 – se pure da queste parti ogni salita può considerarsi straordinaria -  è stata la traversata del gruppo del Fitz Roy compiuta in tre giorni nella scorsa stagione da due fortissimi climbers americani poco più che ventenni: Alex Honnold e Tommy Caldwell. “E' stato bello - è tutto quanto hanno detto ai primi che li hanno visti tornare - ma ora siamo un po' stanchi”.
E sono andati in paese a mangiarsi una pizza.
Marta Trucco
Arrampicata sul Paredòn sopra El Chaltén. Sullo sfondo il Fitz Roy
E ci tocca pure farel'autostop...

L'autrice Marta Trucco sull'Aguglia
di Goloritzè in Sardegna





martedì 1 maggio 2018

L'ISOLA CHE NON C'ERA


  Leggenda e realtà nei mari patagonici
    
Verso la Isla de los Muertos, Rio Baker, Cile
       Molti anni dopo, in una locanda malfamata di Puerto Montt  dove Antiguo Vidal si trovava per sbrigare i suoi traffici, ascoltò quasi per caso- ma esiste poi il caso? o è piuttosto la somma di avvenimenti ineluttabili che ci conducono a sbattere contro il nostro destino? -  dalla voce di un marinaio accasciato lungo il bancone del bar, la storia che di lì a poco gli avrebbe svelato la verità sulla scomparsa di suo nonno avvenuta da quelle parti almeno un secolo prima. L’isola alla foce del Rio Baker, diceva il marinaio con la voce roca impastata dal rum e dal fumo,  che sulle carte risultava senza nome, in verità un nome ce l’aveva, un nome che evocava una vicenda avvolta in un intrico di piante e di oblìo e testimoniata da cumuli di ossa e teschi cui nessuno mai aveva dato sepoltura. Poi, come per scacciare orribili pensieri, trangugiava il fondo del suo bicchiere prima di sbatterlo con un colpo secco sul banco.    


Antonio Pirincho Vidal e Florentina Bahamondes
A cavallo tra l’ ottocento e il novecento la maggior parte dei diritti di sfruttamento del territorio della Patagonia era di proprietà di poche Società Anonime costituite da coloni europei. L’attività produttiva si basava sulla produzione di lana di pecora nella secca steppa Argentina spazzata dal vento, e di legname, che invece abbondava sul territorio umido cileno che si affaccia sulle tempeste del Pacifico dove viene lambito dalla fredda corrente di Humboldt.
       Proprietari di estensioni immense, i coloni dettavano le regole, forti del fatto di trovarsi lontano dal potere centrale assestato nelle capitali di Santiago e Buenos Aires dove le notizie di ciò che accadeva alla fine del mondo giungevano frammentarie e accomodate in  modo favorevole rispetto a chi le inviava. 


       Contando sull’impunità, le ricche Società che facevano perlopiù capo alle famiglie Menendez-Bethy, Bridges, Nogueira e Braun  si macchiarono di crimini orrendi a cominciare dalla sterminio sistematico delle popolazioni indigene per continuare con quelle dei “peones” che si ribellavano all’eccessivo sfruttamento nel loro duro lavoro.  I tentativi di sciopero furono via via soffocati e la repressione culminò con le stragi del 1923, quando l’esercito argentino intervenne per schiacciare l’ irredentismo capitanato dall’ anarchico Antonio Soto e dal suo braccio destro El Toscano.

Isla de los Muertos


 Tra tutti gli episodi tragici di quell’epoca quello cui faceva cenno il vecchio marinaio a Puerto Montt è davvero poco noto, ma a Caleta Tortel, villaggio cileno alla foce del Rio Baker solo da pochi anni raggiunto dalla Carretera Austral voluta dal dittatore Pinochet, Antiguo Vidal trovò non poche persone capaci di raccontare la storia che avvenne sull’isola, i cui particolari macabri variavano in funzione della quantità di Pisco bevuta nell’occasione.


Croci sull'Isla de los muertos
        Caleta Tortel sorge in una zona dove il clima è tra i più umidi della terra: basti pensare che piove una media di 345 gg. all’anno. Lì la foresta cilena deve la sua accessibilità al fatto che è percorsa dal Rio Baker, fiume  dalla portata gigantesca che nasce dal lago Bertrand e si getta in un profondo fiordo del  Pacifico dopo 250km di tortuoso percorso. Questa via d’acqua venne da sempre utilizzata per la navigazione locale e per il trasporto del legname che veniva poi caricato sulle navi da cabotaggio che giungevano alla foce del Rio Baker dall’ oceano.



        Durante la più grande campagna di taglio di alberi che si ricordi nella zona, erano stati contrattati dalla Società che esercitava la sovranità terriera sull’ area, un grande numero di operai che erano accorsi in massa dall’ isola di Chiloè e da molte altre parti della Patagonia. Avventurieri e fuggiaschi vari trovavano in questi lavori a tempo determinato la loro fonte di sostentamento e quando la campagna ebbe termine si ritrovarono tutti concentrati nei baraccamenti costruiti sull’ isola più grande, allora senza nome, alla foce del Baker.
Carretera Austral

Restavano solo da pagare quelle centinaia di braccia che avevano appena finito le loro fatiche e poi la maggior parte di loro poteva fare ritorno alle loro case e famiglie, se mai ce le avevano. I più in verità - gauchos e baqueanos, vagabondi senza fissa dimora - sarebbero stati pronti a partire verso nuove avventure. 
A quel punto ai torvi amministratori della Società balenò un’idea tanto geniale quanto perversa. Se non avessero pagato i salari di tutti quegli operai i guadagni che avrebbero tratto dalla vendita del legname sarebbero stati netti. Ma come fare? Presto detto e fatto. L’ultimo rancio destinato a quei poveri diavoli che aspettavano di essere traghettati sulla terraferma dalle imbarcazioni della stessa Società, venne mescolato al veleno e fu a tutti fatale.

L’ isola alla foce del Baker venne così abbandonata al suo carico di morte e all’oblìo.
Carretera Austral

 Dopo un breve soggiorno a Caleta Tortel e tante bevute al Rey de los Cipreses, Antiguo Vidal decise di andare a verificare di persona le storie che aveva qua e là raccolto e che messe insieme potevano svelare il mistero intorno alla scomparsa di suo nonno. E fu lui a trovare  mucchi di ossa  disseminati lungo la spiaggia e impigliati tra le fronde della foresta pluviale cresciuta rigogliosa a prova del fatto che la vita è sempre più forte della morte.
Successivamente una congregazione religiosa guidata da un prete italiano si prese cura di costruire sull’ isola un cimitero per dare degna sepoltura a quei poveri disgraziati che oggi solo il nome dell’ isola ricorda. Si chiama infatti semplicemente Isla de los Muertos, l’ Isola dei Morti.



Il tempo trasformò la storia in diverse leggende ricche di ulteriore orrore attorno all’ Isla de los Muertos di cui venni in parte a conoscenza in maniera decisamente fortuita – o forse no - mentre facevo un giro in bicicletta da quelle parti.


Quando partii insieme a mia moglie per quel viaggio non lo sapevamo ma nel novembre del 2003 veniva inaugurato il tratto di strada che collegava via terra Caleta Tortel al resto del mondo. Prima di allora il villaggio di boscaioli poco distante dalla foce del Rio Baker, era raggiungibile solo per via fluviale o marittima e ora quei 25 km di strada sterrata che perforavano letteralmente la foresta venivano inaugurati proprio mentre noi passavamo da quelle parti.


La digressione a Tortel fu di quelle epiche, perché ci trovammo coinvolti nella cerimonia inaugurale dell’ avvenimento, come i primi ciclisti a percorrere quel tratto di strada, assieme alle autorità del posto, tra le quali figurava perfino il Presidente della Repubblica Lagos. Questi aveva lo stesso cognome di mia moglie (e a questo punto mi viene da dire che non poteva essere un caso) e ci volle sul palco delle autorità mentre la banda intonava l’ inno nazionale e tutti gli abitanti, sì e no un centinaio di persone,  stavano seri con il petto gonfio e lo sguardo inebetito.
Pioveva forte e i festeggiamenti furono trasferiti sotto un gran tendone dove  vino rosso e Pisco, un distillato simile alla grappa, scorrevano a fiumi. Fu lì che conobbi Paulo, intraprendente e giovanissimo impresario del luogo, dedito a ogni tipo di attività: dall’allevamento alla pesca, dal taglio degli alberi alla costruzione di barche fino al turismo. La sua famiglia possedeva un “campo”  attaccato al ghiacciaio Jorge Montt, lembo settentrionale dello Hielo Continental Sur, che si raggiungeva in 5 ore di navigazione dal villaggio e dove vivevano i suoi vecchi genitori, qualche suo fratello e poche vacche temprate dal duro clima del luogo dove Paulo portava circa 10 turisti l’ anno, tra i quali anche noi.
Dopo qualche bicchiere, Paulo si fece serio e ci raccontò dell’ Isla de los  Muertos con aria tutt’ altro che leggera, tanto da farmi venire davvero i brividi e pure dei dubbi sulla veridicità di una storia tanto terribile. 


Così il giorno dopo salpammo in un’alba veramente da morti con la sua scricchiolante “chalupa” in profumato legno di Cipres de las Guaitecas alla volta dell’Isola.
Villa O'Higgins fine della Carretera Austral

L’ estuario del Rio Baker era enorme, l’ acqua già da qualche miglio era diventata marrone e il motore faceva una gran fatica a risalire la corrente  costellata di resti di tronchi galleggianti che sembravano scheletri. Pioveva, come da copione, il cielo era nero e grosse nuvole stazionavano a pochi metri dal suolo. Era l’atmosfera adatta per quel viaggio, pensavo, mentre le  montagne apparivano e scomparivano tra le nubi mostrando i loro ghiacciai pensili come in una sinistra favola gotica. 
In canoa nei fiordi del Pacifico (ph.L.Nadali)
L’ approdo fangoso si aprì subito sull’ infinità di croci senza nome diligentemente allineate e riparate da steccati di legno marcio che occupavano l’ intera superficie dell’ isola. Su alcune di esse era stato incastrato un teschio umano e muoversi a piedi tra le tombe significava affondare nel fango almeno fino a metà tibia. Altre ossa erano ammucchiate qua e là e gli unici fiori erano quelli degli arbusti che crescevano ovunque tra i faggi megellanici.

La leggenda era dunque una storia vera.