giovedì 7 giugno 2018

OVERHEAD THE ALBATROSS...

Lorenzo Nadali nel seno Eyre (Patagonia-Cile)

Nel Dicembre 1999 e Gennaio 2000 con il mio amico bolognese Lorenzo Nadali
ci imbarcammo (nel vero senso della parola) in un viaggio in canoa che ci fece attraversare tutta la Patagonia: dall'oceano Pacifico a quello Atlantico in quasi due mesi di navigazione. Si trattò senza dubbio dell'avventura  più bella della nostra vita e proprio pochi giorni fa, Lorenzo mi ha scritto da Tenerife dove vive: ripartirei subito.
Volevamo vedere da vicino i posti che avevamo spesso attraversato in bus o sorvolato in aereo per andare a scalare le solite montagne e non ce ne pentimmo. Gli aneddoti sui momenti passati assieme sarebbero innumerevoli. Ne ricopio qui uno che avevo scritto per il Concorso Carlo Mauri di qualche anno fa.
Il titolo riprende un fraseggio di Echoes dei Pink Floyd, il pezzo della band britannica che più d'ogni altro mostra il passaggio dalla fase psichedelica a quella melodica della loro straordinaria musica. 
La situazione che descrive nella prima strofa si adatta alla perfezione con quella in cui ci trovavamo noi quel giorno piovoso e freddo in un fiordo del Cile senza nessun sistema di comunicazione, quindi liberi e molto felici di esserlo.

Overhead the albatross
Hangs motionless upon the air
And deep beneath the rolling waves
In labyrinths of coral caves
An echo of a distant time
Comes willowing across the sand
And everything is green and submarine


Erano ormai più di sei ore che la furia del mare ci sospingeva su onde enormi con vento in poppa con la nostra canoa pneumatica, che facevamo navigare imprudentemente ma velocemente a vela, nel sinistro fiordo che si origina dal ghiacciaio Pio XI.
Le ripide pareti rocciose del fiordo sfilavano a dritta e noi ci dovevamo preoccupare solo di mantenere la canoa allineata alla forte corrente e di evitare i grossi iceberg che ingombravano il fiordo.
Mantenere alto il morale non era facile, le onde e il vento rinforzavano sempre più, la costa non concedeva approdi ed il cielo nero come il carbone non avrebbe reso felice nessuno, ma noi stavamo bene e l'impegno richiesto dalla situazione ci teneva nella giusta tensione per non pensare a brutte cose.
Ad un tratto apparve all’orizzonte verso sud nella tempesta un aereo scuro che volava basso e sembrava non curarsi del potente vento di prua.
Le sue ali ricordavano la silouette degli Stukas tedeschi e la sua sagoma minacciosa ondeggiava lievemente fendendo l’ aria spessa.
La Sandia Primera sul Rio La Leona
Che cazzo ci fa qui un aereo in una giornata come questa? Lorenzo da poppa ha già abbastanza da fare con la pagaia per timonare tra le onde, se non ci siamo ancora rovesciati è merito della sua perizia e della mia fortuna che però pare abbandonarci perché un aereo ci sta precipitando addosso!
Il sibilo del vento sulla vela di nylon e il frangersi delle onde su se stesse non ci permettono di ascoltarne il rumore ma tra poco lo udiremo perché ci è vicinissimo… Hey!!!, non e’ un aereo visto da lontano ma un uccellaccio nero enorme a pochi metri… cazz… “giú la testa coglione” (lo dicevano in un bel film western di Leone) sennò ce lo pigliamo addosso, sssssssh… e passa oltre!
Sentiamo il suo odore, contiamo le sue piume unte e ne vediamo i colori tenui del ventre mentre lui prosegue alle nostre spalle ed è giá lontano verso il ghiacciaio, nel vento (sempre lui!) e sul mare nero che lo colora assieme al cielo uguale.
L’albatro stavolta non ha interpretato la parte che una crudele e bella poesia di Baudelaire gli attribuisce. E’ stato regale, coraggioso e pure curioso e noi ora siamo felici di essere stati sulla sua strada.
Nel Seno Eyre, vivi.
Piove duro e orizzontale, il cappuccio delle giacche in goretex serve a convogliare nel collo rigoli d’ acqua fredda che si infiltrano negli spazi che il vento ricava tra pelle e indumenti, meno male che ci diamo dentro con le pagaie e ci scaldiamo anche se bagnati. La canoa che, dalla vita in giù è a prova d’acqua, raccoglie il liquido che passa da sotto le giacche e lo trattiene in una pozzanghera dove stanno le nostre gambe. Inutile indossare vestiti per l’ acqua adatti al kayak.
In mare bisogna remare sempre, non c’ è la corrente dei fiumi che ti trasporta sempre a valle, se ti vesti con il neoprene in poche ore sei pieno di vesciche e irritazioni sulla pelle perché pagaiare tutto il giorno fa sudare anche se fuori fa freddo. Solo alle mani abbiamo dei guanti in neoprene, intanto sono sempre bagnate, e la pelle ne giova di questa idratazione forzata contrariamente a quanto avevamo pensato prima di partire per questo splendido viaggio, quando ci vedevamo pieni di screpolature dovute allo sfregamento della pelle sui remi, come antichi schiavi romani.
Invece la nostra pelle è sempre morbida ed elastica, alla faccia della cosmesi venditrice di fumo e creme costose!
La tristezza positiva dei fiordi cileni...
La vita dei vecchi indios del posto ci insegna che il corpo umano puó sopravvivere anche cosí bagnato ed al freddo. Non ci siamo mai raffreddati, mai colato il naso, mai un mal di schiena… una cura per il nostro benessere.
Un ritorno alle origini nel nomadismo e nella natura che ci fa stare in pace e sempre bene. Incredibile ma vero, già proprio così.