venerdì 8 febbraio 2019

NON RESISTO A PUBBLICARLO! SETTANTA GIORNI AL SUR TRA TREKKING, SCALATE e AMICIZIE.

Guido Grando sulla rampa Whillans all'ag. Poincenot
Settanta giorni al Sur, tra trekking, scalate e amicizie.
(di Franz Salvaterra)

Volge al termine questo viaggio lavoro-vacanza in Patagonia durato poco più di due mesi, voglio cercare di tirarne le somme con un racconto introspettivo.

I primi 20 giorni sono stati di lavoro, io e Marcello Cominetti abbiamo accompagnato i nostri clienti a fare la “Vuelta dello Hielo”, una traversata di sette giorni attorno al massiccio del Cerro Torre. Purtroppo abbiamo incontrato un tempo pessimo, ma “this is Patagonia”. Poi, arrivato Max siamo andati al Cerro Torre, abbiamo avuto fortuna con il meteo e mettendo assieme le esperienze che ci siamo fatti su queste montagne, ce la siamo giocata bene e siamo arrivati in vetta divertendoci.
Quasi in cima al Cerro Torre
Sono rimasto solo ed è seguito un periodo di brutto tempo, quindi relax e trekking. Ho esplorato la “Vuelta del Milanesio”, un trekking di tre giorni poco famoso ma di rara bellezza. Feste e bella vita in paese. Nelle “brecce” di bello più o meno concrete, un tentativo con Guido alla Aguja Poincenot il primo dell'anno e una solitaria alla Guillamet. A metà gennaio arriva Franco, mio papà, e l'amico Fabio Pellizzari, entrambi per la prima volta in Sud America. Devono essere in ottimi rapporti con la dea bendata perché esplode una vera finestra di bel tempo. Facciamo la “Vuelta del Fitz Roy” dal “Boquete del Piergiorgio” una stupenda traversata alpinistica di tre giorni. Un po' di scalata plasir nei dintorni del Pueblo e Fabio parte per l'Uruguay. Io e papà sconfiniamo in Chile per sei giorni di trekking in posti unici e difficili da raccontare, attraversiamo un ghiacciaio e camminiamo per lande sperdute senza sentieri e senza incontrare anima viva; una delle esperienze più “wild” che abbia mai fatto. Nascerà qui l'idea del Trek del Diablo. 
Rio Pantoja, trek dek Diablo, e Glaciar Chico


Torniamo a Chaltén, fa ancora bello, scendiamo il Rio de Las Vueltas in canoa, poi Papà torna a casa e io vado a scalare un'ultima volta, una bella via sul Mocho con due amici, “Paci” argentino e Josè, cileno. Alla scadenza del rientro, decido di spostare il mio volo e di passare una settimana a Buenos Aires ospitato da Ines, un'amica argentina. Non ero sicuro che mi sarebbe piaciuto, invece questi giorni sono stati i più belli del viaggio. Ines mi ha fatto scoprire il delta del Rio de la Plata e una vita di città che (non ci avrei mai scommesso) potrebbe anche piacermi. Adesso sono a Venezia con
Max a la Brecha del los Italianos sul Fitz Roy
l'acqua alta e gambali in prestito, ospitato da Sara e le sue compagne universitarie. Sto sistemando queste righe mentre la docente universitaria di storia alla facoltà di belle arti parla della “Bauhaus” e di come “Gropius” la intenda patria comune di tutte le forme di lavoro creativo, dove si accetta la creatività dell'individuo ma finalizzata a un prodotto collettivo, in modo da togliere la figura dell'artista dall'alienazione alla vita quotidiana. Siccome non ci capisco un tubo mi dedico ad altro, tendendo un orecchio ogni tanto, giusto per darmi conto del fatto che continuo a non capirci un tubo. Dopo questa pausa nel viaggio di rientro oggi pomeriggio torniamo a casa tutti assieme. A Tione dicono che nevica.
Cosa è per me la Patagonia?
Quando si torna a casa alle domande “Com'è andata?” ” Cos'hai fatto?” Questo elenco appena riportato potrebbe essere la risposta: cime scalate, posti visitati, fatti. La Patagonia che ho conosciuto questa volta e negli ultimi cinque anni per me però non è questo, o perlomeno non solo. Quando domandi al turista di dieci giorni cosa ha fatto in Patagonia dice: “Sono andato a El Calafate a vedere il Perito Moreno, a El Chaltén e a Ushuahia, molto bello ma non capisco come mai dicono che in Patagonia faccia sempre brutto tempo”. “Vedere” però non è “vivere” un luogo, per viverlo ci vuole calma e tempo, giornate dove “non si fa niente”.
Per me La Patagonia è una mezcla (=miscuglio) di emozioni e sensazioni sulla pelle, di vento che ti abbatte nel fisico e nel morale. La Patagonia sono le intere giornate passate al riparo del rifugio Piedra del Fraile o chiusi nel sacco a pelo, in tenda, facendo gli “hombres larva” mentre fuori imperversa la tempesta e la pioggia scende (o sale?!) orizzontale. Durante le quali si conversa, si legge, ci si perde nei propri pensieri o semplicemente non si fa nulla. La Patagonia è un ritorno all'essenzialità, è lasciare a casa più cose possibili, costretti dal fatto che bisogna portarsi tutto sulle spalle. Per una volta è vincere contro questo fottuto consumismo che ci bombarda la mente di necessità inesistenti, di bisogni artificiali, mentre alla fine quello che veramente ti serve nello zaino è solo un po' di cibo, una giacca e un sacco a pelo, e dopo un paio di zaini mal calcolati si impara a lasciare a casa anche il terrore di ogni guida alpina che lavora con i trekking: lo stramaledetto “beauty”. La Patagonia sono i pomeriggi di riposo o attesa passati seduti sulle sedie di legno dell'ostello Rancho Grande, scambiandosi opinioni sulla qualità del lato B delle signorine che varcano la porta d'entrata. La Patagonia è l'adrenalina che sale dandoti forza e concentrazione mentre scali un tiro di misto difficile, con le piccozze che grattano frenetiche a trovare qualcosa di solido su cui agganciarsi. Dove l'ultima protezione comincia ad allontanarsi e sai che se ti fai male non puoi chiamare il 118, dove tu e il tuo compagno (che a volte hai conosciuto due giorni prima) siete soli e, se te la sei portata, ti domandi se la radio funzionerà. La Patagonia sono i bivacchi sotto le stelle con la giacca infilata nella custodia del sacco a pelo come cuscino, tra il russare dei tuoi compagni e il fragore occasionale di un seracco che rovina giù per qualche canalone. Sono le buste di “comida” (=cibo) disidratata che nonostante la scritta hanno tutte lo stesso sapore, in relazione alla fame, generalmente squisito. La Patagonia è la felicità e soddisfazione di calcare con i piedi il punto più alto di una montagna o la frustrazione mista al senso di sollievo che ti pervade quando invece decidi che è meglio scendere, quando getti la spugna per paura, e quando, il giorno dopo, ti ritrovi al sicuro con i piedi sotto la tavola di un bar e ti domandi se sei sceso perché andava fatto o perché sei un cagasotto, però, di fatto, se puoi domandartelo è perché sei ancora vivo. La Patagonia sono le amicizie strette con personaggi di tutti i tipi e nazionalità, dove la novità e intensità delle emozioni vissute assieme fanno in modo che queste amicizie durino più di quanto si possa immaginare. E' conversazioni in stentato inglese o castigliano maccheronico che costringono a strizzarsi il cervello, a mettersi in gioco. La Patagonia è il senso della “tierras de olvido” vissuto tra le estancias abbandonate a picco sul lago O'Higgins. Soprattutto la Patagonia è camminare e camminare, in salita e discesa, in piano per chilometri, con lo zaino sempre pesante per tanto che ci si impegni a portare meno dello stretto indispensabile. E' tornare in paese talmente stanco e prosciugato che ti dici “mai più”, ma già sotto il getto della doccia ti ritrovi a pensare a un nuovo progetto. La Patagonia è la soddisfazione di permettere ad altri di vivere il fascino di luoghi che da soli non potrebbero raggiungere, è essere il primo della fila e decidere se risalire quella morena o stare nella valle, se guadare un torrente o usare la tirolese, se accamparsi dietro quel precario muretto a secco o se camminare ancora tre ore per trovare un riparo migliore, se fare una doppia su quei due nuts vecchiotti o cercare qualcosa di meglio. E anche se non è facile da capire (per me è difficile) a volte la Patagonia è mettere da parte la foga e le ambizioni e “lasciare che le cose accadano”, un po' come lasciarsi portare dalla corrente limitandosi a dirigere la canoa senza remare come matti, tanto poco importa quale riva si va a lambire.
Sicuramente mi dimenticherò qualcuno ma vorrei ringraziare i tanti amici che mi hanno aiutato e con cui ho passato dei bei momenti, quindi grazie a:
Marcello Cominetti, per primo, perché se non avesse creduto in me mi sarei perso delle esperienze indimenticabili ed economicamente non mi sarei potuto permettere il viaggio. A Ines perché è una ragazza speciale e starle vicino mi fa star bene. A Guido che con la sua intelligenza mi ricorda che sono un ignorante, e perché non mi scorderò mai più la crema da sole. Ad Ajelen, a Tommy che è più argentino che italiano. A Papà per questo ritorno alle prime avventure, a Fabio per la serenità contagiosa. A Giovanna, Sandro, Andrea e Francesco per la bella esperienza sullo Hielo. A Max perché è un duro (non raccontare in giro la storia della headwall). Ad Arnaud Clavel e Luigi, a Rolo e Doerte per la disponibilità e affidabilità. Ad Alejandra, Nicole, e Nuria. Ad Ale Bau e Claudia (complimenti per il loro roadtrip), a Doriano, Ivan e Manuel. A Tommy, Silvestro, Gianni, Aldo e Alejandra. Ad Adelicio Lagos, ultimo pioniere dell'estancia Cerro Colorado. A Carolina e alla “Comision de rescate” di cui per fortuna non ho avuto bisogno, al personale dell' hostel Rancho Grande, a Josè e Paci, a Natalia, a Markus, a Milena perché è bellissima, a Vicente Labate, a Julian Casanova e Raphael per le doppie, a Sasha, Ignazio e il piccolo Firmin, i gentilissimi gestori del Rif. Piedra del Fraile. A Sara e le sue compagne veneziane.
Ai miei sponsor: Ferrino, Zamberlan,Climbing Tecnology, e Lizard che vestendomi dalla testa ai piedi mi sollevano dal terribile onere di andare a fare shopping.
“Gracias a todos, nos vemos pronto!”
Francesco Salvaterra
Venezia, venerdì 6 febbraio 2015