lunedì 2 luglio 2018

1988, un anno Rock!


 (in parte pubblicato sulla monografia Alp Tofane-Cinque Torri)
 
Marco Fanchini "Gesubambino" sulla nord
dell'Eiger nel 1984
Quello che segue ora è il racconto disincantato di una serie di avventure di gioventù a lieto fine dove riuscii a guardarmi dentro come in nessun altra occasione della mia vita e dove le montagne che più amo e un amico, mi aiutarono a vivere un giorno grande, uno di quelli in cui ci si sente invulnerabili come Nembo Kid e la voglia di fare supera ogni altra.

Un tale di nome Cristophe Profit e compagni impazzava sulle Alpi occidentali fermando i cronometri su tempi inimmaginabili fino a pochi anni prima. Era l’epoca degli “enchainemments”, ovvero concatenamenti di più ascensioni alpinistiche. Percorrendo di corsa più itinerari classici… ma non proprio facili.
E noi?
Noi a oriente restavamo ammirati sicuramente ma forse ci sentivamo ancora lontani da quelle cose, oltre che geograficamente anche mentalmente. Si, c’erano stati dei precedenti a cura di un certo Barbier negli anni ’60 ma poi nulla più, o quasi.
Finchè Marco (Fanchini detto Gesubambino) incontrò al Monte Bianco l’allora mitico Cristophe mentre risaliva il Col Flambeau verso il Rif. Torino. Marco era con un cliente ben allenato e superò in salita l’astro francese, che forse quel giorno non aveva voglia di correre.
Tornò a Corvara dove lavorava con me ogni estate e mi disse: si può fare!
Nel 1988 per un imprudenza mia e del mio compagno mi ritrovai sepolto da un enorme valanga che mi ruppe un bel mucchio d’ossa costringendomi a letto per 90 giorni. Passai quindi tre mesi a schiacciare con le dita delle mani una pallina da tennis mentre le mie vertebre, ed altre ossa qua e là per il corpo, si risistemavano.
In Dolomiti con il giovane Garibaldi nel 1988
In realtà gran parte di quei giorni li passai nel “letto” di una barca a vela perché, mi ero detto, se devo passare la primavera sdraiato meglio che sia nel miglior posto possibile. L’ unico problema era spiegare al medico ad ogni visita che io stavo davvero a riposo anche se ero così bruciato dal sole…
Nell’ agosto dello stesso anno iniziai a potermi muovere e la voglia di arrampicare era veramente tanta! Quindi mi mossi soprattutto su pareti verticali litigando con Marco che si rifiutava, ma solo inizialmente, a farmi da capocordata perché aveva paura che la schiena mi si spezzasse. 
Sas dla Crusc 1985
L’ idea di Marco al ritorno dal Bianco era esaltante. La Costantini Apollonio alla Tofana di Rozes, la Scoiattoli alla Scotoni, le due Messner e la Livanos al Sass dla Crusc una dietro l’ altra, in giornata e senza elicotteri o altre diavolerie volanti, al massimo con l’ automobile.
A inizio settembre avevo già arrampicato abbastanza ma ero anche riuscito a consumare la cartilagine di un ginocchio perché camminavo (correvo! E chi ti tiene a vent’anni?) troppo in discesa dopo un lungo periodo di inattività e qualche legamento ancora un po’ provato dalle torsioni alle ginocchia della caduta di maggio con gli sci e gli attacchi bloccati, ma la voglia superava ogni ostacolo.
La voglia già, che cosa banale eppure così forte. Pensateci.
Lasciai perdere i consigli dell’ ortopedico accettando quelli di Lorenzo Lorenzi alpinista ampezzano, che mi raccontò di quando dopo un brutto incidente stradale con frattura di diverse vertebre, riprese ad arrampicare quasi subito perché arrampicando si sentiva meglio. Io applicai a questo le dovute misure temporali e iniziai ad arrampicare un po’ dopo, ma non troppo.


Reduci dalla nord del Cervino: Baccanti, Fanchini, Cominetti 1983
Il “pullmino dell’ amore”, un vecchio Mercedes diesel arancione dove accadeva ogni cosa e così chiamato perché Marco chiedeva a ogni ragazza se le fosse piaciuto fare l’amore là dentro -e il bello era che molte rispondevano di si-, lo parcheggiammo la sera prima ai piedi della Tofana. Spesso era la nostra casa in quegli anni. Il pullmino era stato centrato lateralmente da un autotreno lungo una pista del Sahara e Marco si era miracolosamente salvato e aveva salvato anche il mezzo spedendolo a casa in un container, dove arrivò due anni dopo. Un amico carrozziere lo aveva tagliato a metà, raddrizzato e poi risaldato. Infatti una saldatura circolare percorreva tutto il perimetro dell’abitacolo in senso verticale, ma teneva.
Discutemmo dopo cena sul fatto che la Costantini Apollonio, detta a Cortina e dintorni semplicemente “il Pilastro”, fosse o no più dura della Scoiattoli alla Scotoni, detta semplicemente “la Scotoni”… insomma era più duro il Pilastro o la Scotoni? ci dicevamo analizzandone i passaggi uno alla volta.
Anni '80

Ma tu con i clienti su quale vedi che fanno più fatica? Sul Pilastro, fu la risposta di entrambi, quindi il Pilastro è più duro e basta!
Devo dire che a quei tempi queste vie ci sembravano dei sentieri, ma forse solo perché avevamo più voglia di percorrerle di oggi, dopo averle fatte decine di volte.
Primo tiro della Scoiattoli alla Scotoni, in libera
 (e di corsa). Un buon 6c+/7a coi chiodi ancora oggi
Infatti alle 4 partimmo su per il Pilastro come se si trattasse di un sentiero, cioè di corsa: mica vuoi perdere tempo a camminare, no?
Il bello era che ci assicuravamo diligentemente su ogni tiro di corda e ciò nonostante in 2 ore e dieci minuti eravamo in cima e scendemmo al pullmino con le frontali accese, come sulla via.
Come poi del resto sulla Scotoni, non mi riuscì mai più di salire così velocemente, ma quella volta la voglia era così tanta… già, la voglia.
Il pulmino dell’ amore non aveva un gran motore in termini di potenza, era stato si in Africa attraversandosi mezzo Sahara, nel grande nord scandinavo e  su ogni passo alpino ma i cavalli erano quelli che erano, e quindi la salita a Passo Falzarego , sfilando sotto le Cinque Torri, fu lenta, ma in discesa il pullmino dell’amore essendo pesante ed avendo dei pessimi freni era imbattibile, così non tardammo molto. Quello che si perdeva in salita lo si guadagnava in discesa.
Mi sembra di sentire i Talking Heads di quell’alba sparati negli enormi altoparlanti del pullmino di Marco che furono fondamentali per non addormentarci. Psyco Killer rumoreggiava nelle casse acustiche JBL da salotto opportunamente montate in fondo al bagagliaio.
Marco sul pilastro di destra
Sas dla Crusc 1985
Su alla Scotoni dunque, ovviamente di corsa, e con una voglia matta di arrampicare mentre iniziava a far chiaro. La via durò 1 ora e 45 minuti e ci fu il tempo di mettere a bagno i piedi nel laghetto di Lagazuoi prima di riprendere la corsa.
Tu sei stanco? Ci chiedevamo a vicenda, io no. Era la risposta. La voglia era tantissima e correre non costava nulla. Mangiavamo una cioccolata a via e ci cambiammo la maglietta una volta a testa. Io ne avevo una con su un bluesman nero del Louisiana Pub di Arona.
Al Sas dla Crusc, dopo le due Messner, si mise a piovere e quindi rinunciammo alla Livanos, per fortuna! Avevamo arrampicato per 7 ore e tre quarti più gli spostamenti, ma fino ad allora non eravamo stanchi, erano le sei di sera.
La stanchezza si fece sentire lungo la discesa sotto la pioggia, ma credo per la noia che richiese farla.
Eravamo dei razzi ed avevamo una voglia matta di divertirci fine a se stessa, proprio fine a se stessa. E ditemi se è poco!

A Novembre partimmo per la Patagonia, destinazione: Cerro Torre.
Trascorremmo 28 giorni sotto la pioggia al Campo Maestri con degli sloveni (Silvo Karo e Janez Yeglic) dei cecoslovacchi (Miroslav Shmidt e altri tre suoi amici) e uno svizzero di
Marco sul Torre 1988
Arosa, Bobi Goete che ci insegnarono un sacco di parolacce. Un giorno che fece bel tempo arrivammo quasi in cima ma la tormenta ci ricacciò a valle e il Cerro Torre non lo vedemmo più. Facendo l’autostop e prendendo pure qualche aereo visitammo delle località che però ci sembrarono sempre molto squallide. Capii solo dopo anni che quello era il bello della Patagonia: lo squallore splendente!
Una sera, in un locale che si chiamava Don Diego de la Noche ascoltavamo un musicista triste che eseguiva delle milonghe. La milonga è come una nenia che ha sempre lo stesso tempo e basa la sua forza sulla ripetitività e sul testo.
Quando il musico si concesse una pausa, Marco gli chiese se poteva suonare un po’ la sua chitarra. Iniziò con un pezzo di Pino Daniele, poi un altro e la gente sembrava gradire. Il musico argentino aveva finito la sua pausa e avrebbe volentieri ripreso a suonare, ma la folla era ormai impazzita e ballava al ritmo delle note di Marco. La chitarra, per il musico era irraggiungibile! Così Marco attaccò Psyco Killer dei Talking Heads e la folla si esaltò al punto che il musico locale si incazzò da morire e con dei suoi amici si organizzava per menarci.
Mio figlio Tommaso nel 1990
Quando Marco restituì la chitarra al proprietario, un ceffo lì vicino gli assestò un cazzotto sul naso facendolo sanguinare mentre cadeva a terra. Iniziarono a volare spintoni e insulti. Mi presi un calcio nella schiena da ospedale e mi trascinai verso la porta dove anche Marco cercava di andare mentre spiegava a parole, ma nessuno lo capiva, che non voleva fare torto a nessuno.
Ci ritrovammo fuori nella notte ventosa tutti doloranti e ce ne andammo litigando tra noi.
Era quasi Natale e di lì a poco rientrammo in Italia.
Prima che finisse l’anno concepii senza saperlo il mio primo figlio.