lunedì 1 aprile 2024

L'ISTANTE ZERO

Foto Birgid Mander

 Al di là del bene fisico che fa camminare su un sentiero di montagna, ho sempre riscontrato che, mentre si è immersi nello sforzo monotono del mettere un piede davanti all’altro, arrivano, come se lo avessimo pensato in anticipo, pensieri positivi e idee.

Lo stesso accade durante le gite sci alpinistiche, dove lo sforzo e il movimento durante l’ascesa, non si discostano molto da quello che si fa quando si cammina.
Sono entrambe attività che mi succede di svolgere piuttosto spesso, per il mio lavoro di guida alpina o per il mio piacere personale. Non importa quanto questo tipo di attività duri in termini di tempo, ma importa che la partenza sia voluta anche quando la pigrizia suggerirebbe di stendersi sul divano, attività che considero remunerativa al recupero, solo se ci si è stancati prima. Altrimenti la sera avremo un senso di inutilità del vivere che però non è ciò di cui vorrei parlare ora.

Foto Michele Barbiero

I pensieri che si materializzano nella nostra mente mentre camminiamo possono essere di vario tipo, ma ultimamente ce n’è uno che mi ricorre in testa da molte gite, quindi voglio scriverne perché non si sa mai che magari non venga più a visitarmi piacevolmente la mente. In verità si tratta di pensamenti che ho da decenni, ovvero da quando mio figlio maggiore Tommaso aveva pochi mesi di vita e con sua madre eravamo nella costante ricerca confusa di qualcosa che lo facesse stare bene. Siccome a noi giovani genitori piaceva stare all’aria aperta, anche lui si ritrovava costretto a stare fuori con noi, convinti che fosse una buona occasione per assimilare dalla natura insegnamenti che di molto oltrepassano il semplice, ma indispensabile, respirare aria buona.

Tommaso aveva meno di un anno ma camminava già o comunque si arrangiava a gattonare laddove l’irregolarità del terreno non gli garantiva sufficiente equilibrio. Tra gattonaggio e camminata in posizione eretta o quasi, riusciva a spingersi anche su facili roccette, cespugli, greti di ruscelli e montagnette erbose, grazie al fatto che la nostra sorveglianza non era poi così stretta.

Mia figlia Isabel










Gli piaceva essere lanciato in aria o sul letto da distanze sempre maggiori, cosa che divertiva anche me, ma un giorno si ruppe un braccio cadendo malamente tra dei cuscini. Glielo ingessarono e non ne fu per nulla felice, tanto che nessuno poteva toccargli il gesso, pena l’essere preso a urla di disprezzo.

Con mio figlio Tommaso

Mentre lancio in aria mio figlio
Foto Elisabetta Marinaro

I lanci per aria, però, continuavano, perché ci piacevano e ci facevano fare grandi risate.
Realizzai che durante il lancio per aria del bambino, come di qualsiasi altro oggetto, c’è un istante in cui il corpo si ferma nell’aria prima di iniziare a precipitare nuovamente verso il basso. E’ un momento che dura una frazione di secondo, ma si può considerare, pur nella sua brevità, come un momento in cui si è immobili nell’aria. Situazione particolare in cui anche i fluidi del corpo, sensazioni comprese, hanno un cambio netto di direzione o un arresto come di riflessione.

Franz Salvaterra lancia sua figlia Lisa. Foto Chiara Stenghel

Me ne accorsi perché captai negli occhi di mio figlio come un lampo di meraviglia misto a stupore e saggezza. Quando lo riafferrai sotto le ascelle eravamo felici come sempre, ma notai che qualcosa era successa.
Vedere il mondo da lassù di quell’istante immobile ha sicuramente avuto un suo effetto che a me è sembrato di universale assorbimento di tutto ciò che ci stava attorno, compreso il senso di sicurezza infuso in mio figlio dalle mie mani che lo riafferravano prima che si schiantasse a terra.

Ho sempre giocato in questo modo con i miei figli perché sono sempre stato certo di riprenderli al volo anche se avrei potuto sbagliare. Sono stato conscio di entrambe le situazioni ma evidentemente la prima ha sempre prevalso sulla seconda, altrimenti avrei evitato.

Penso anche che una manovra simile possa trasmettere in un bambino piccolo una sicurezza interiore che dal genitore transita come per osmosi ai propri figli. Certi genitori non farebbero mai un gioco simile per paura che il pargolo caschi a terra facendosi male, ma questa è un ipotesi che non mi ha mai sfiorato. Non suggerisco a nessuno di farlo se già non gli era venuto in mente naturalmente.

Alessandro Gogna lancia sua figlia Petra. Foto Bibiana Ferrari

D’altronde nella vita quante volte capita di dover prendere decisioni che possono avere anche conseguenze estremamente negative? Si tratta della vita stessa e del fatto che nulla arriva gratis, bisogna sempre mettersi in gioco se si vuole ottenere qualcosa a cui si tiene.

Mi sembra che i ragazzi che da piccoli sono stati lanciati in aria dai genitori abbiano qualcosa che li distingue dagli altri. Non lo noto solo nei miei figli ma anche negli altri che hanno oppure no, subìto simili trattamenti.

Non potevano opporsi di certo, ma penso che sia stato bene così.
Anche mio padre mi lanciava in aria da piccolo. Forse sono caduto.



venerdì 8 marzo 2024

DOLOMITI, SCIALPINISMO DI PASQUA 29MARZO-1APRILE 2024. 500€/persona min. 4 pers.

 

Cima Tofana di Rozes 3225m.









MANDATO IN VACCA DAL MALTEMPO

Le Dolomiti, scialpinisticamente parlando, riservano agli appassionati vere e proprie "chicche" specie in primavera, quando il manto nevoso assestato consente di spingersi con relativa sicurezza sui pendii che portano su alcune delle cime più interessanti e remunerative. Manco a dirlo, le discese che riconducono alla base sono di qualità eccelsa, tanto da farne rientrare alcune tra le più belle delle Alpi tutte e forse, aggiungo, del mondo intero!



Infatti, a puro titolo di esempio, le discese dalla Tofana di Rozes, dal Piz da Lech, da La Varella, dalla Marmolada di Penia o dal Monte Casale, solo per citarne alcune tra quelle dietro casa, si propongono con salite anche tecniche e discese superlative.


La mia proposta è destinata a scialpinisti di buone capacità e si articola su tre gite in tre giorni.

La base sarà in appartamento a casa mia (oppure in altra sistemazione purchè nel Comune di Livinallongo del Col di Lana, per praticità. Vedere: www.arabba.it) e ogni giorno si partirà per qualche decina di minuti d'auto per portarci alla partenza della gita prescelta.



Ovviamente le gite verranno scelte giornalmente a seconda delle condizioni nivo-meteo allo scopo di garantire la massima sicurezza assieme alla massima godibilità delle stesse.

1°g. ritrovo presso la mia abitazione in Via Corte 35 entro la sera. Cena libera presso ristorante tipico poco distante.

2°g. gita

3°g. gita

4°g gita e fine del programma.

Vista la stagione la partenza per le gite sarà piuttosto presto al mattino, quindi il rientro dalle gite è da immaginarsi verso metà pomeriggio.

Corte



La quota comprende: sistemazione in appartamento, guida alpina per 3 giornate.

La quota NON comprende: spese di viaggio e spostamenti, pasti, quanto non compreso alla voce precedente.

Attrezzatura: da scialpinismo con artva, pala, sonda, + rampant, ramponi, piccozza, imbragatura (leggeri, questi ultimi tre elementi)


INFO +39.3277105289 

info@marcellocominetti.com 

TERMINE ISCRIZIONI: 20-MARZO-2024

lunedì 12 febbraio 2024

Ricordo di un ragazzo

 Mi sorprendo ogni volta di fronte a chi è innamorato dell'Alto Adige/Suedtirol perché, dice, è tutto pulito e ordinato. Mi è sempre sembrata una visione moto superficiale e neppure così reale. I motivi per apprezzare o meno un luogo e un popolo, secondo me, sono molto più profondi e dopo 40 anni di vita tra queste valli, mi sento di raccontarlo con una semplice storia di vita, ambientata nei miei primi anni, quando era ancora obbligatorio il servizio militare.

Scialpinismo in Arhntal/Valle Aurina, Sattelspitze 2850m.








Nei primi giorni del Gennaio 1982 giunsi a S.Candido in Val Pusteria, assegnato al Battaglione Alpini Bassano e più precisamente alla Compagnia Comando e Servizi in qualità di comandante di plotone esploratori.
Gli esploratori, poi denominati alpieri, rappresentano quello che nell’immaginario collettivo è il vero alpino.

Sciatori, alpinisti, fondisti, marciatori e sportivi della montagna in genere vengono assegnati a questa specialità delle Truppe Alpine costituendo una elite di 21 soldati con compiti svariati che vanno da quello di fuciliere assaltatore al soccorritore alpino e all’attrezzatore di vie per fare salire tutto il resto dei reparti in montagna, sia d’estate che d’inverno con armamenti pesanti e leggeri. Nonostante i miei 21 anni non ancora compiuti, mi ritrovavo ad essere responsabile dell’addestramento e dello svolgimento di varie attività in montagna, di un gruppo di ragazzi verso i quali mai mi riuscì di applicare la disciplina ferrea che pretendevano i miei superiori. La passione per l’alpinismo e lo sci, sia di fondo che alpinistico, ci faceva sentire un gruppo di privilegiati che raramente dovevano “giocare alla guerra” perché impegnati per lo più in attività sportive di soddisfazione.

Per un periodo venimmo assegnati a svolgere il soccorso piste nel comprensorio Baranci-Monte Elmo trascorrendo giornate che sembravano più di vacanza che di servizio militare. Fuori dalla caserma il nostro punto di aggregazione era la pasticceria Wachtler dove lavoravano cameriere bellissime e molto bella era pure la proprietaria, una certa Silvia che dopo poco più di un anno dal nostro arrivo convolò a nozze con un mio collega.


I miei alpini erano quasi tutti di lingua tedesca e, a parte un lombardo e un trentino, erano tutti sudtirolesi.
Villgrater, Stauder, Gschnitzer, Preindl, Spiess, Oberrauch, Steinwander, Daverda, Schönegger erano alcuni dei cognomi che ricordo oltre a Munari e Andreatta, gli unici due italiani. 

Arco (TN) 1982. Con i miei allievi. Indossavo le scarpette 
S.Marco Berhault appena uscite

Tre sergenti comandavano tre squadre composte da 6 alpini cadauna e la loro gestione era per me la cosa più complicata perché ero un loro superiore ma loro erano militari professionisti mentre io lo ero per un periodo di 15 mesi perché dopo sarei tornato alla vita civile. Ciò nonostante avrei avuto la possibilità di fermarmi nell’esercito come ufficiale effettivo e non più di complemento come ero in quel periodo.
Soggiornavo presso l’hotel Aquila Nera, in centro paese, non perché fosse particolarmente economico, ma perché mi ero invaghito della figlia dei proprietari che però era già promessa a uno degli imprenditori della valle. Poco prima di essere assegnato al reparto a S.Candido la mia fidanzata mi aveva lasciato per uno che restava a casa perché non so per quale motivo non doveva fare il servizio militare, mentre io terminavo il durissimo corso per allievi ufficiali alla Scuola Militare Alpina di Aosta che non mi aveva lasciato energie neppure per piangere come avrei voluto. Avrei voluto dimenticarmi di lei e pensavo che un’altra ragazza avrebbe fatto al caso, ma con quella che avevo scelto non c’era speranza perché era guardata a vista da sua madre e dal suo promettente fidanzato. Una soddisfazione però me la presi la sera che lei mi raccontò che voci di caserma dicevano che era arrivato un nuovo comandante del plotone esploratori che era molto benvoluto dai suoi soldati. Siccome lei non sapeva quali mansioni io avessi, me lo disse pensando che si trattasse di un altro ufficiale e non certo di me.

Sass Pordoi 1982. L'attrezzatura da sci militare aveva fatto
passi da gigante: sci Maxel, attacchi Zermatt Nepal e
scarponi S.Marco Raid!


Quel mese di Gennaio stava passando abbastanza piacevolmente perché a breve ci sarebbero stati i campionati di Brigata di biathlon e con alcuni dei componenti del mio plotone ci allenavamo giornalmente e ci spartivamo i turni del soccorso piste.
Ero già stato in vacanza diverse volte con i miei genitori in Alto Adige e quindi sapevo benissimo che gli abitanti delle valli erano quasi tutti di etnia e lingua tedesca e che non avevano in simpatia gli italiani, o almeno queste erano le voci che giravano. Loro per noi erano crucchi  e noi eravamo walschen.
Questi luoghi comuni non mi hanno mai convinto e infatti ho sempre trovato persone buone e cattive in ogni etnia, quindi i miei alpini crucchi a me piacevano e cercavo di avere il rispetto che si meritava un popolo che suo malgrado si era ritrovato italiano dopo la prima guerra mondiale. Cercavo di far capire loro che eravamo tutti sulla stessa barca e che avremo dovuto cercare di trascorrere al meglio quell’anno di leva che la legge imponeva. Spesso firmavo dei permessi a quello che poteva essere un mio compagno di cordata per andarci a fare un’ascensione o una gita sci alpinistica, intanto non avevo di certo l’esigenza di andare in licenza fino a Genova vista la lontananza e questo contribuì a farmi vivere il posto e la sua gente anche al di fuori del ruolo militare che avevo.
Nei fine settimana quelli che avevano diritto a una licenza di almeno 24 ore raggiungevano spesso casa e chi aveva un automobile lo faceva guidando come un pazzo per avere più tempo da dedicare alla ragazza o alla famiglia. Gli incidenti stradali, anche gravi, non mancavano.
 Il Caporale Hartmann Daverda, oltre alla ragazza e alla famiglia, dedicava tempo alla sua passione per lo scialpinismo che aveva imparato nella sua bellissima valle al confine con l’Austria, la Valle Aurina. Anzi, se guardiamo una carta geografica noteremo che la Valle Aurina o Arhntal nel suo nome originale, altro non è che una penisola in territorio austriaco i cui confini sono una linea politica che nulla ha a che fare con l’effettiva geografia del luogo. E’ la parte più settentrionale del nostro paese, dove la cima Klockerkarkopf è stata rinominata Vetta d’Italia.

2024 Arhntal, verso la Sattelspitze,
sullo sfondo l'abitato di Prettau/Predoi


Io sono italiano ma uso più volentieri le denominazioni tedesche di questi luoghi perché sono quelle originali. Durante il fascismo ci fu un certo Tolomei che il Duce aveva designato come colui che avrebbe dovuto italianizzare tutti i toponimi tedeschi, spesso senza tradurre semplicemente il nome ma attribuendone uno di fantasia che nulla aveva a che vedere con il significato di quello originale.
Se nella storia si sviluppò un odio verso gli italiani da parte di molti alto-atesini (o sudtirolesi) il motivo va cercato anche nei modi autoritari, colonialisti e irriverenti verso la cultura sudtirolese che i politici italiani hanno usato fino agli anni ’80.

Nel 1956 si costituì in Alto Adige un gruppo irredentista tirolese che voleva l’indipendenza dall’Italia e che pose tra i suoi primi obiettivi, come gesto altamente simbolico, la distruzione della tomba di Ettore Tolomei. Fino alla fine del 1988 ci furono 361 attentati dinamitardi e/o armati con un totale di 21 morti e diversi feriti. Lo Stato Italiano, per combattere l’ondata terroristica, istituì una task force costituita da Carabinieri, Finanzieri, Poliziotti, Paracadutisti e Alpini che agiva nelle valli di confine con l’Austria perché molti dei terroristi andavano e venivano da quest’ultima.
Tra le fila nazionali c’erano ufficiali e sottufficiali spesso razzisti e un po’ esaltati. Ne ho conosciuto qualcuno restandone impressionato non proprio positivamente e uno di loro era un mio diretto superiore. Costoro parlavano dei sudtirolesi come avrebbero fatto i cowboys degli indiani d’America ed era evidente che un clima simile non avrebbe di certo favorito un rapporto civile tra i due gruppi etnici.

I primi di Febbraio del 1982 un venerdì sera consegnai dei permessi agli alpini che durante il fine settimana avrebbero avuto una breve vacanza dall’Esercito. Chi solo il sabato e chi, più fortunato, sarebbe rientrato la domenica sera in tempo per il contrappello che veniva fatto alle 23.
Il lunedì successivo all’adunata di tutto il Battaglione nel cortile principale della caserma Cesare Battisti la fila di una delle mie squadre aveva un “buco” perché un alpino mancava dal suo posto. Era il posto del vice-comandante di squadra, ruolo di solito ricoperto da un Caporale. Prima dell’alza bandiera uno scritturale di fureria della mia Compagnia mi avvicinò sussurrandomi che Daverda era morto sotto una valanga il giorno prima.
Ci dovemmo comporre velocemente per la cerimonia giornaliera in cui ogni singolo comandante di Unità riferisce al comandante del Battaglione eventuali novità.
Il tutto avviene in maniera assai formale e veloce con at-tenti, riposo e saluti al cappello senza lasciare spazio a ulteriori convenevoli che semmai possono poi seguire una volta terminata l’adunata nei rispettivi uffici dei comandanti.
Dovetti dire senza fronzoli o emozioni al Tenente Colonnello: 20 alpini presenti di cui uno assente perché deceduto in licenza.

1982 esercitazione con barella
Mariner sulle Torri di Sella


Rotte le righe, ognuno si dirige ai suoi compiti ma io dovetti passare per l’ufficio del comandante a riferire con più dettagli cosa fosse accaduto a Daverda.
Dovetti anche andare dai Carabinieri a denunciare l’accaduto e assieme chiamammo a casa del povero Daverda per sapere più dettagli e quando ci sarebbe stato il funerale.
Era chiaro a quel punto che tutto il mio plotone avrebbe dovuto essere, secondo me, a Prettau (Predoi) due giorni dopo al funerale del nostro amico Hartmann.
Non era così chiaro però secondo il mio comandante, che era uno di quelli che fino a poco tempo prima aveva fatto parte di quella Unità Speciale di Rinforzo per l’Alto Adige che contrastava il terrosismo. Alla mia richiesta di farci partecipare al funerale del nostro amico mi rispose che quella era una zona “calda” per l’attivismo sudtirolese e che non sarebbe stato prudente andare come militari proprio lassù. D’altro canto non concedeva un permesso a tutto il mio plotone per farci andare al funerale, quindi ci saremmo dovuti andare mentre eravamo in servizio! Ovviamente in divisa e con i mezzi militari.
Per me era la prima volta che perdevo un amico in montagna. Sentivo come un dovere il dargli un ultimo saluto e l’avrei fatto con tutti i compagni di caserma!
Hartmann era un tipo in gamba, ottimo sciatore, di poche parole, specialmente in italiano perché oltre a: fucile, zaino e licenza, non sapeva dire di più ma il suo sguardo intelligente era sufficiente per capirci e poi era sempre di buon umore e aveva carisma sugli altri. Per quello l’avevo fatto promuovere Caporale e anche se lui rideva del fatto che l’Esercito di un paese “nemico”, perché quella era la sua percezione, gli avesse addirittura dato delle mansioni di comando, sapevo che ne era anche un po’ fiero. Si vedeva da come si rivolgeva ai suoi compagni ai quali ironicamente dava degli ordini con voce marziale che puntualmente venivano derisi scherzosamente, lasciando però trasparire negli altri una sorta di ammirazione per quel ragazzo tarchiato che sugli sci era una forza della natura anche sulle nevi più difficili.

1982 Val Badia. Diedro Mayerl
Sass dla Crusc


 
Daverda aveva una sciata molto naturale e solo apparentemente aggressiva. Si capiva che comandava lui e non la neve. Teneva gli sci paralleli ma non uniti come si usava allora. Sciava con gli sci alla distanza naturale secondo la larghezza del proprio bacino, tecnica che di lì a poco sarebbe divenuta “ufficiale” perché garantisce un maggior equilibrio e un’azione sterzante in curva più efficace.

Era mitragliere e portava a tracolla la mitragliatrice MG 42/59 dal peso di una dozzina di kg più il nastro di cartucce! Durante un’esercitazione a Passo Montecroce Comelico si era lanciato giù da un canale ripidissimo in un bosco fitto di larici con ai piedi gli scarponi da sci d’ordinanza, che erano gli stessi in cuoio che tenevamo ai piedi in caserma, gli sci di legno con le lamine avvitate e l’attacco Silvretta-Kandahar, sparando (a salve) all’impazzata sul nemico mentre io scendevo lo stesso versante coadiuvato dal Sergente Costa e la sua squadra in cui un membro portava un lanciarazzi leggero anticarro (detto bazooka), ma su terreno aperto. Daverda ci copriva. Avevamo tutti lo zaino pieno di cose inutili, quindi piuttosto pesante, le tute mimetiche bianche in spesso cotone che non permettevano di certo movimenti sciatorii fluidi e il FAL (fucile automatico leggero, ma solo di nome) a tracolla, più le munizioni, qualche bomba a mano in tasca e l’elmetto d’acciaio calcato in testa. Per fortuna che eravamo giovani e forti! Dietro di me c’era sempre il fido radiofonista, un trentino di Tione che, oltre allo zaino sulla schiena e l’armamento d’ordinanza come gli altri, aveva appesa sul petto una radio RV3 per una buona dozzina di kg più l’antenna lunga 3.5m che si impigliava ovunque nel bosco. Eppure riuscivamo a muoverci abbastanza agilmente nella neve fonda fino a che ci ritrovammo su un versante dove la neve era durissima, la pendenza piuttosto ripida e dovevamo assolutamente ripararci dal tiro nemico. Andreatta, il radiofonista, slittò perdendo il controllo travolgendomi e insieme iniziammo a ruzzolare verso valle con tutte le nostre pesanti attrezzature. Ci arrestammo fortunosamente su un balcone da dove Daverda/Rambo poteva vederci ma non si spiegava perché fossimo uno addosso all’altro. Mentre ci districavamo cercando di darci un contegno mi scappò un: Andreatta che cazzo fai! La risposta fu: zio can, tenente, go ciapà l’giaz!

La sera, da Frida, sul lago di Dobbiaco, dove andavamo ogni tanto a berci una birra, dovetti offrire da bere per tutti.

Il tempo che mancava al funerale era sempre meno e il comandante non si decideva ad autorizzare la nostra partecipazione. Ci trovavamo in una situazione in cui avremmo fatto anche la cazzata di contravvenire agli ordini ammutinandoci, tanto era la convinzione che avevamo di andare a salutare l’ultima volta il nostro amico a casa sua. Lo riferii al Colonnello che, seppure contrariato, capì che nel nostro plotone c’era un forte sentimento di amicizia e di tristezza per avere perso un compagno di avventure. Perché sono lo sforzo e il disagio a creare le vere amicizie. Alla fine ci consentì di andare a Prettau ufficialmente, al funerle del nostro amico Hartmann.

1982 Hans Peter Steinwander sulla
Via Cassin, Cima Ovest di Lavaredo



La mattina presto feci preparare un autocarro Lancia ACL e un FIAT ACM sui quali prendemmo posto. A Febbraio in Alta Pusteria le temperature erano tutt’altro che alte. Direi che nella maggior parte dei giorni erano decisamente polari! A quei tempi la truppa viaggiava armata sul cassone degli autocarri con il telone sollevato per motivi di sicurezza, tanto più da quelle parti, e gli spostamenti erano un vero supplizio dato il freddo. Arrivati a Prettau parcheggiammo i due autocarri sotto la chiesa davanti agli sguardi stupiti degli astanti. Feci lasciare le armi sui camion con a guardia i due autisti, armati a loro volta. La funzione fu semplice e commovente pur nella sua freddezza teutonica e il prete ringraziò anche in italiano, cosa stupefacente, noi che eravamo intervenuti. Dopo la sepoltura ci fu un rinfresco, cosa per me inusuale, e tutto si svolse in un modo a me sconosciuto ma che in qualche modo mi faceva capire che c’era dell’affetto tra tutte quelle persone anche verso di noi in divisa “nemica”, e che la passione per la montagna ci teneva uniti ben oltre l’obbligo militare.

Nel 2021, in piena epoca Covid 19 andai a fare una gita di scialpinismo con un amico proprio sopra al paese di Prettau. Al ritorno chiesi all’ amico di fermarsi un momento con la sua macchina davanti alla chiesa attorno alla quale c’è un giardino costellato di tombe. In sudtirolo i cimiteri sono intorno alla chiesa. C’era quasi un metro di neve e cercare la tomba di Hartmann non era facile, anche perché non ricordavo dove fosse. Non la trovai e tornai alla macchina.
Nel 1983 a Finale Ligure avevo aperto una nuova via di arrampicata a Monte Cucco su una parete alta poco meno di un centinaio di metri. L’avevo chiamata Hartmann e ogni volta che risalgo con le pelli di foca sotto agli sci una laterale della Arhntal per raggiungere qualche cima, mi ricordo con nostalgia di quel sorriso irriverente.

Aprile 1982 Val Mesdì, Corvara.