Lo faccio perché Franz è riuscito a condensare in poche righe la vera essenza di un viaggio in quei posti, come mai avevo letto. E perché parla molto bene di me, perché negarlo?
Adesivo di alpinisti anarchici, com'è giusto che sia! |
Nell'imminente inaugurazione della Compagnia delle Guide Cominetti & Salvaterra specializzate in viaggi e ascensioni in Patagonia assolutamente fuori dai circuiti convenzionali (per davvero), leggetevi questo resoconto perché ne vale la pena.
Cosa è per me la Patagonia?
Quando si torna a casa alle domande “Com'è andata?” ” Cos'hai fatto?”
Questo elenco appena riportato potrebbe essere la risposta: cime scalate, posti visitati, fatti. La
Patagonia che ho conosciuto questa volta e negli ultimi cinque anni per me però
non è questo, o perlomeno non solo. Quando domandi al turista di dieci giorni
cosa ha fatto in Patagonia dice: “Sono andato a El Calafate a vedere il Perito
Moreno, a El Chaltèn e a Ushuahia, molto bello ma non capisco come mai dicono
che in Patagonia faccia sempre brutto tempo”. “Vedere” però non è “vivere” un
luogo, per viverlo ci vuole calma e tempo, giornate dove “non si fa
niente”. (leggete "Hydle days in Patagonia" di C. Hudson per credere di più. Ndr)
Franz Salvaterra |
Per me La Patagonia è una mezcla di emozioni e sensazioni sulla
pelle, di vento che ti abbatte nel fisico e nel morale. La Patagonia
sono le intere giornate passate al riparo del rifugio Piedra del Fraile o
chiusi nel sacco a pelo, in tenda, facendo gli “hombre larva” mentre fuori
imperversa la tempesta e la pioggia scende (o sale?!) orizzontale. Durante le
quali si conversa, si legge, ci si perde nei propri pensieri o semplicemente
non si fa nulla. La Patagonia è un ritorno all'essenzialità, è lasciare
a casa più cose possibili, costretti dal fatto che bisogna portarsi tutto sulle
spalle. Per una volta è vincere contro questo fottuto consumismo che ci
bombarda la mente di necessità inesistenti, di bisogni artificiali, mentre alla
fine quello che veramente ti serve nello zaino è solo un po' di cibo, una
giacca e un sacco a pelo, e dopo un paio di zaini mal calcolati si impara a
lasciare a casa anche il terrore di ogni guida alpina che lavora con i
trekking: lo stramaledetto“beauty”. La Patagonia sono i pomeriggi di
riposo o attesa passati seduti sulle sedie di legno dell'ostello Rancho Grande,
scambiandosi opinioni sulla qualità del lato B delle signorine che varcano la
porta d'entrata. La Patagonia è l'adrenalina che sale dandoti forza e
concentrazione mentre scali un tiro di misto difficile, con le piccozze che
grattano frenetiche a trovare qualcosa di solido su cui agganciarsi. Dove
l'ultima protezione comincia ad allontanarsi e sai che se ti fai male non puoi
chiamare il 118, dove tu e il tuo compagno (che a volte hai conosciuto due
giorni prima) siete soli e, se te la sei portata, ti domandi se la radio
funzionerà. La Patagonia sono i bivacchi sotto le stelle con la giacca
infilata nella custodia del sacco a pelo come cuscino, tra il russare
altalenante dei tuoi compagni e il fragore occasionale di un seracco che rovina
giù per qualche canalone. Sono le buste di “comida” disidratata che nonostante
la scritta hanno tutte lo stesso sapore, in relazione alla fame, generalmente
squisito. La Patagonia è la felicità e soddisfazione di calcare con i
piedi il punto più alto di una montagna o la frustrazione mista al senso di
sollievo che ti pervade quando invece decidi che è meglio scendere, quando
getti la spugna per paura, e quando, il giorno dopo, ti ritrovi al sicuro con i
piedi sotto la tavola di un bar e ti domandi se sei sceso perché andava fatto o
perché sei un cagasotto, però di fatto, se puoi domandartelo è perché sei
ancora vivo. La Patagonia sono le amicizie strette con personaggi di
tutti i tipi e nazionalità, dove la novità e intensità delle emozioni vissute
assieme fanno in modo che queste amicizie durino più di quanto si possa
immaginare. E' conversazioni “stusciate”
in stentato inglese o castigliano maccheronico che costringono a strizzarsi il
cervello, a mettersi in gioco. La Patagonia è il senso della “tierras de
olvido” vissuto tra le estancias abbandonate a picco sul lago O'Higgins.
Soprattutto la Patagonia è camminare e camminare, in salita e discesa,
in piano per chilometri, con lo zaino sempre pesante per tanto che ci si
impegni a portare meno dello stretto
indispensabile. E' tornare in paese talmente stanco e prosciugato che ti dici
“mai più”, ma già sotto il getto della doccia ti ritrovi a pensare a un nuovo
progetto. La Patagonia è la soddisfazione di permettere ad altri di
vivere il fascino di luoghi che da soli non potrebbero raggiungere, è essere il
primo della fila e decidere se risalire quella morena o stare nella valle, se
accamparsi dietro quel precario muretto a secco o se camminare ancora tre ore
per trovare un riparo migliore, se fare una doppia su quei due nut vecchiotti o
cercare qualcosa di meglio. E anche se non è facile da capire (per me è
difficile) a volte la Patagonia è mettere da parte la foga e le
ambizioni e “lasciare che le cose accadano”, un po' come lasciarsi portare
dalla corrente limitandosi a dirigere la canoa senza remare come matti, tanto
poco importa quale riva si va a lambire.
Sicuramente mi dimenticherò qualcuno ma vorrei ringraziare i tanti
amici che mi hanno aiutato e con cui ho passato dei bei momenti, quindi grazie
a:
Marcello Cominetti, per primo, perché ha creduto in me insegnandomi
“l'arte” e pagandomi bene, e perché è simpatico. A Ines perché è una ragazza
speciale e starle vicino mi fa star bene. A Guido che con la sua intelligenza
mi ricorda che sono un ignorante, e perché non mi scorderò mai più la crema da
sole. Ad Ajelen, a Tommy che è più argentino che italiano. A Papà per questo
ritorno alle prime avventure, a Fabio per la serenità contagiosa. A Giovanna,
Sandro, Andrea e Francesco per la bella esperienza sullo Hielo. A Max perché è
un duro (non raccontare in giro la storia della headwall). Ad Arnaud Clavel e
Luigi, a Rolo e Doerte per la disponibilità e affidabilità. Ad Alejandra,
Nicole, e Nuria. Ad Ale Bau e Claudia (complimenti per il loro roadtrip), a
Doriano, Ivan e Manuel. A Tommy, Silvestro, Gianni, Aldo e Alejandra. Ad Adelicio Lagos, ultimo pioniere
dell'estancia Cerro Colorado. A Carolina e alla “comision de rescate” di cui
per fortuna non ho avuto bisogno, al personale dell' hostel Rancho Grande, a
Josè e Paci, a Natalia, a Markus, a Milena perché è bellissima, a Vincente, a
Julian Casanova e Raphael per le doppie, a Sasha, Ignacio e il piccolo Firmin, i
gentilissimi gestori del R. Piedra del Fraile. A Sara e le sue compagne
Veneziane.
Ai miei sponsor: Ferrino, Zamberlan,Climbing Tecnology, e Lizard che
vestendomi dalla testa ai piedi mi sollevano dal terribile onere di andare a
fare shopping.
“Gracias a todos, nos vemos pronto!”
Francesco Salvaterra
Venezia, venerdì 6 febbraio 2015