il versante meno bello del Fitz Roy con la Supercanaleta al centro |
Alle otto siamo pronti a partire per andare a dare un'occhiata. Fa caldo e la neve per guadagnare il colle Standhardt è pesante. Raggiunto il colle la rabbia del vento ci dà una violenta scrollata facendoci decidere di continuare. Il primo tiro di misto, sul quinto grado, mi impegna abbastanza, non per la difficoltà in sé quanto per il non farmi strappare via dalle raffiche malefiche di questo vento gelato.
Dopo il secondo tiro siamo a est riparati e tranquilli. Proseguiamo portandoci dietro il raffreddore che Max si è preso al colle e che lo torturerà per settimane. Raggiungiamo la goulotte caratteristica di questo capolavoro di Bridwell e quasi arriviamo in cima decidendo, forse a torto, di scendere perché ci sembrava tardi. In verità avremmo avuto tutto il tempo, ma si sa, col senno di poi è facile dire quello su cui prima si dubitava.
Max parte e sembra che due giorni dopo arrivi una finestra. Ormai tutti usano questa parola per dire che potrebbe fare qualche giorno di bel tempo. È che quando é sempre brutto, anche i migliori meteorologi (leggi Garibotti) se sono anche loro scalatori iniziano a vedere finestre anche laddove non ci sono che piccoli oblò.
Quindi parto con Franz, 30 anni più giovane di me ma ben temprato da una lunga permanenza sulla ovest della Torre Egger con il suo omonimo Salvaterra per aprire una viona che nessuno mai ripeterà.
Meta nostra la Supercanaleta al Fitz Roy che presenta l'ultimo quarto di parete imbiancato come non mai. Ma si parte convinti, io forse più di Franz, assieme a Diego e due Marchi (Farina e Majori dell' Esercito e fortissimi!) che fanno l'altra cordata che alle due del mattino risale il conoide iniziale di questo viaggio verticale. Il conoide è affolato da altre cordate, almeno tre, ovvero una decina di lampade frontali traballanti che rallegrano la consueta atmosfera lugubre di questi casi. Quella che Desmaison caratterizza in suo libro scrivendo che la crepaccia terminale puzza di cantina umida e il sonno rende tutto ovattato.
I miei compagni notano due belle ragazze bionde tra gli altri aspiranti alla via. Me lo dicono meravigliandosi che io non le abbia notate. Forse ero impegnato a correre dietro ai miei soci supergiovani per guadagnare la prima posizione in salita, ma proprio non le ho notate. Mi dispiace, gli dico col fiatone. Già da dove il pendio si raddrizza per entrare nel couloir di oltre mille metri che segna l'inizio di questa via classica, la mia esperienza di guida mi dice che noi cinque siamo i più veloci. La cosa mi conforta assai e non voglio perdere la pole position, anche se questo ha il suo prezzo, che significa polpacci di fuoco per due ore buone e concentrazione assoluta esclusivamente sulle tre punte d'acciaio che si alternano nel collegare la mia esistenza a questo pianeta. Per il passo ambio alla Steck ci saranno altre occasioni. Magari più brevi di questa "grand course" nel vero senso della parola.
Ci leghiamo solo all'inizio delle difficoltà che fin da subito non sono così banali come pensavamo. Parte Franz ed è subito un buon quinto che in arrampicata sarebbe il grado da cui si inizia, ma che qui si presenta complicato da ramponi, piccozze e guanti che si fanno chiamare misto moderno. Un'arte neppure troppo recente a cui si è dato il nome di drytooling tanto per rendere questo procedere goffo e perlopiù incerto, almeno una specialità che conti degli adepti.
Le nuvole nere in cielo e la rapidità con cui si spostano mentre l'alba fa capolino, mi fanno dire a Franz che sarebbe meglio scendere ma abbiamo tanto tempo,perché in effetti siamo stati veloci su per la canaleta, quindi si prosegue. Passo davanti imbattendomi nel corpo di Frank imbrigliato nel ghiaccio, un poveraccio caduto qui anni fa e mai recuperato. La mountain bike appesa al soffitto della Chocolateria lo ricorda come un amigo del pueblo. Ciao Frank, si deve andare avanti e lo facciamo bene senza perdere troppo tempo. E siamo così all'uscita della via Californiana. La cima sembra lì a pochi passi ma ci tocca aggirare torri verticali, superare pareti che da sotto sembravano alte pochi metri mentre le dimensioni da vicino si moltiplicano per dieci. Il ghiaccio ricopre tutto, ma proprio tutto e costringe a un gran lavoro di pulitura che ci fa andare lenti lenti. Ci alterniamo al comando e battiamo i denti dal freddo perché la "finestra" era solo nella nostra fantasia speranzosa. Siamo in una perenne nuvola grigio scuro che non mette buonumore per nulla e il vento ci viene a cercare dietro a ogni spigolo oltre il quale cerchiamo di ripararci. Si, da queste parti ti accorgi che il vento non soffia solo da una direzione ma quando non dovrebbe si mette a soffiare da tutte quelle più fatidiose dandoti l'impressione inquietante che ti stia cercando con convinzione e goda da morire a sottrarre calore dal tuo corpo già provato da altri eventi del momento.
Nonostante le tre giacche che indosso ho la netta sensazione che il poco calore del mio corpo se ne stia andando a contatto con i miei indumenti freddi. Le ore passano in una progressione lenta e per nulla divertente,nonostante le battute idiote che ci scambiamo.L'alpinismo estremo (!?) non è affatto cosa seria, anche se molti lo credono.
Quando la via è finita la cima è lì a pochi minuti. Si può raggiugere camminando su per una rampa detritica esteticamente deprimente. Ci sono degli squarci nel cielo e compare perfino il tipico azzurro saturo che è la gioia dei fotografi con panza e teleobbiettivo da finestrino del bus. La mia meta è il primo ancoraggio per le doppie che portano nuovamente nella Supercanaleta, e quindi alla base. Alla cima vera e propria non salirei neppure se dio mi promettesse un berlusconiano elisir di vita infinita. Sulla cima del Fitz ci sono già stato ma penso che gli altri ci tengano a raggiungerla per la prima volta. E invece no! Noto non senza un minimo di soddisfazione, che la conquista dell'inutile di terrayniana memoria ha in questo momento un realistico sopravvento, è proprio il caso di dirlo, e tutti siamo concordi nello scendere immediatamente. Pensavo di essere vecchio, infreddolito e demotivato perché non mi interessava affatto andare fino in cima ma capisco che tutti e cinque concordiamo sul fatto di averne pieni i coglioni. Negli ultimi momenti della via ho pensato che non mi interessava a tutti i costi farla, ma che si può incontrare in condizioni migliori e goderne molto di più. Questo mi ha fatto soffrire più ancora mentalmente prima che fisicamente, anche perché ormai ero lì.
Questo momento mi ha fatto e rifatto riflettere sul mio alpinismo, su tutti questi anni passati a sforzarmi di credere in certi obbiettivi come il massimo della vita. E invece no. La mia vita é occupata anche da altre cose, soprattutto da altre persone, dai miei figli, dalla mia famiglia, dalla mia chitarra e dalla finestra di casa mia. Una finestra che so che esiste e che non é eterea come quelle meteo che qui si aspettano e si inventano.
Fanculo l'alpinismo mi dico con soddisfazione e gioia, pur amandolo ancora e sapendo che ai monti tornerò sempre, se potrò. Ma ci tornerò secondo il mio sentire, che è un qualcosa che negli anni cambia e secondo me si evolve al mio interno e mi fa decidere come interpretarlo.
Il fascino di queste e di altre cime per me restano immutati. Le montagne sono lì e non si spostano per definizione, ma noi ci possiamo spostare, possiamo percepire, pensare e agire di conseguenza. Possiamo perfino inventarci una cosa come l'alpinismo. E tutto questo è fantastico!
El Chaltén, penultimo giorno del 2013, ore 11,52.
Via Exocet 1°tiro, Cerro Standhardt Ph. Max Lucco |