IL BUGIARDO ( Vero Freeride II )
Da sin.: io, Stefano Bonetti, Sandro Pansini, Libero Liggeri, Angelo Baccini, Walter Buongiorno. S.Fruttuoso di Camogli 1978 |
Genova 1978
Al nostro gruppo degli Scout, dopo una campagna per
raccogliere iscritti che non ricordo come si svolse, si aggiunse in autunno un
elemento degno di nota.
RL era un bel giovanotto poco più che ventenne, simpatico, incantava tutti con i suoi racconti, specie le ragazze. Di nobili origini possedeva case, tenute e castelli in ogni località di grido e aveva, a dir suo, un’attività sessuale che a tutti noi sembrava notevole.
Ovviamente si muoveva su lussuose auto con autista, solo sulla Lamborghini Miura guidava lui, era un campione in diversi sport e vestiva capi di marca e alla moda casual di allora.
Arrivato l’inverno lo invitammo a passare una domenica con noi sugli sci nella
località di Artesina, piccola e modesta stazione delle Alpi Marittime. Accettò
con un po’ di riluttanza e ci disse che si sarebbe presentato all’appuntamento
con una macchina “adatta”.
Era ancora buio quando ci incontrammo al casello di Genova Ovest presso la concessionaria Fiat e RL non si presentò con la jeep che ci immaginavamo, bensì con una Autobianchi A112 Abarth da 58 cavalli rossa e nera.
Non si trattava di una fuoriserie ma era comunque una macchina fighissima e io vi presi volentieri posto.
Gli altri occupavano la seconda A112 amaranto di Maurizio e la Fiat 850 Coupé blu notte di Firpo.
Imboccata l’autostrada, RL non risparmiò di tirare bene le marce per dimostrare di che pasta era fatta la sua scattante autovettura, costringendo gli altri che seguivano a superare i limiti che ci davamo per rientrare nel rosicato budget di cui disponevamo che prevedeva di non consumare più di tot carburante e quindi di stare sotto i 100 km all’ora.
Il piccolo convoglio avanzava brillantemente verso Savona e poi Mondovì lungo la vecchia autostrada per Torino dalle corsie con sorpasso alternato, pericolosissima, si diceva, ma che a noi mai sembrò tale.
Arrivati a destinazione e acquistati alcuni skipass (altri venivano falsificati abilmente, sempre per risparmiare) inforcavamo gli impianti per smettere di sciare solo quando avrebbero chiuso.
Bisogna dire che per noi sciare significava una sola cosa: metterci nei guai e combinare dei grossi casini. Le piste a gobbe (quelle lisciate di oggi non esistevano ancora) ci piacevano fino a un certo punto perché prevalentemente ci infilavamo nei boschi o comunque giù da pendii fuoripista. Saltavamo dalla seggiovia, andavamo all’indietro sullo skilift o in 2 o 3 alla volta, costruivamo salti sfinendoci dalle botte che prendevamo cadendo e ricordo una sensazione di umido costante addosso perché i vestiti erano sempre bagnati dalla neve fonda in cui rotolavamo facendo la lotta, in cui cadevamo lanciandoci dagli alberi o semplicemente sciando alla massima velocità per esplodere in tragicomiche nuvole bianche.
RL aveva sempre sciato col maestro o con campioni e ci diceva che quello non era sciare, ma tentava di seguirci per non restare solo e in breve tempo fu esausto. Approfittò di una breve pausa durante la quale mangiammo i panini preparati dalle nostre mamme, per riprendersi un poco, ma si vedeva che le gambe non rispondevano più da tempo alla volontà del loro padrone, figuriamoci gli sci…
Dopo l’ennesima caduta a ribaltoni nella neve fonda, RL era sull’orlo dello sfinimento mentre noi altri eravamo solo preoccupati perché di lì a poco gli impianti avrebbero chiuso.
Partimmo quindi per un’ultima risalita per scendere fuoripista, ovviamente, alla “merdaccia chi arriva ultimo”.
L’aria di mare si faceva sentire da un pezzo e la neve, polverosa al mattino, nel pomeriggio era diventata cartongesso, ma noi, nulla ci poteva fermare! RL prese velocità, perse completamente il controllo e fece l’ennesima spettacolare caduta: il suo corpo sembrava un manichino vuoto che si torceva e avvitava su se stesso fino a sbattere al suolo violentemente. Non si muoveva più, era morto! No, muoveva un braccio, la faccia sfregiata era sotto la neve macchiata di sangue. Gli usciva un rantolo dalla bocca riempita dalla neve. Cercammo di aiutarlo ma se lo toccavamo urlava come una scimmia impazzita. A quei tempi alla chiusura degli impianti non passava nessun controllo piste di sicurezza e stava diventando velocemente buio. Chiamare soccorso era l’ultima delle cose che ci sarebbe venuta in mente. Tutto era deserto e immobile e bisognava scendere in qualche modo. RL si contorceva dal dolore e piangeva mentre noi lo trascinavamo fino al fondovalle tirandolo per la giacca a vento fradicia e i suoi piedi giravano a 360 gradi come quelli di Pinocchio. Ma RL non era un cartone animato. Dal ginocchio in giù le gambe non sembravano più le sue tanto strisciavano sulla neve seguendone le asperità senza reagire.
Arrivati al parcheggio ci ingegnammo per il trasporto del ferito. Costruimmo una specie di barella con dei cartoni recuperati dai cassonetti dei rifiuti per poter sdraiare RL sul sedile dell’850 di Firpo, l’unica con i sedili ribaltabili. RL era allo stremo, sembrava un ferito di guerra di quelli che si vedevano nei film.
Neanche a dirlo Sandro, il più grande della nostra compagnia, inforcò con Libero la A112 Abarth di RL per correre a Genova, vedere quale velocità massima poteva raggiungere quel piccolo bolide e per avvisare al telefono i familiari di RL. Telefonare da Artesina sarebbe costato troppi gettoni telefonici…
Le curve per scendere a Mondovì erano una tortura per RL che sballottava al mio fianco, io cercavo di immobilizzarlo ma lui urlava di dolore e non voleva essere toccato in nessuna parte del corpo. Firpo alla guida cercava argomenti che secondo lui potevano distrarre RL dai suoi dolori lancinanti: la versione Coupé della Fiat 850 non era come la sua omonima berlina ma vantava un motore di ben 1000 cc e soprattutto, trattandosi di un’auto sportiva, aveva sospensioni molto più dure! Ecco il perché di quei sobbalzi, dolorosissimi per RL, che io cercavo di confortare facendogli mordere uno straccio tutto sporco trovato sotto al sedile.
Imboccata l’autostrada, al principio tutto sembrava filare meglio ma durò pochissimo perché poco dopo iniziò una serie di viadotti e sulle giunzioni tra le parti di cemento armato che li compongono le sospensioni dell’850 Coupé diedero il meglio di sé ricordando a RL ancora una volta che anche quella, oltre alla sua, era un’auto sportiva.
Una consuetudine alla quale non potevamo venire meno, pena lo sforare dal nostro budget domenicale, era quella di fare tutti i tratti in discesa a motore spento. Firpo non era uno spericolato, tra noi era forse il più calmo e prudente, ma per non perdere l’abbrivio non toccava mai i freni e, se serviva, si lanciava pure in sorpassi a motore spento tra le corsie del sorpasso alternato con la massima naturalezza. Diceva che per non scaricare la batteria, che a motore spento non veniva ricaricata dalla dinamo, non poteva tenere accesi gli anabbaglianti e quindi andavamo con le sole luci di posizione e i sorpassi erano un azzardo pazzesco.
Finalmente arrivammo all’ospedale Galliera di Genova. Eravamo tutti nella sala d’aspetto del Pronto Soccorso mentre gli infermieri adagiavano RL su una vera barella e lui ci guardava in lacrime e con gli occhi sbarrati, felice di essere finalmente sfuggito alle nostre manovre poco delicate.
Ce ne stavamo con l’aria mesta ad aspettare il padre di RL che era stato avvertito al telefono, ci aspettavamo un nobiluomo con Mercedes nera o con una Lancia Fulvia 2000 grigio metallizzato, ovviamente con autista in livrea. Grande fu la nostra sorpresa quando da una Fiat 850 berlina scese un ometto che correndo verso il Pronto Soccorso gridava in dialetto genovese “duv’e u l’è mèe figgiu”. Fu allora che scoprimmo, con disappunto e meraviglia, che il padre di RL faceva il portuale e che il figlio, poveraccio, aveva riportato fratture scomposte e a spirale di tibia e perone di entrambe le gambe.
Viaggiò in stampelle per mesi e mesi, fu sottoposto a numerosi interventi chirurgici e non lo vedemmo mai più.
RL era un bel giovanotto poco più che ventenne, simpatico, incantava tutti con i suoi racconti, specie le ragazze. Di nobili origini possedeva case, tenute e castelli in ogni località di grido e aveva, a dir suo, un’attività sessuale che a tutti noi sembrava notevole.
Ovviamente si muoveva su lussuose auto con autista, solo sulla Lamborghini Miura guidava lui, era un campione in diversi sport e vestiva capi di marca e alla moda casual di allora.
Freeride anni '80 |
Era ancora buio quando ci incontrammo al casello di Genova Ovest presso la concessionaria Fiat e RL non si presentò con la jeep che ci immaginavamo, bensì con una Autobianchi A112 Abarth da 58 cavalli rossa e nera.
Non si trattava di una fuoriserie ma era comunque una macchina fighissima e io vi presi volentieri posto.
Gli altri occupavano la seconda A112 amaranto di Maurizio e la Fiat 850 Coupé blu notte di Firpo.
Imboccata l’autostrada, RL non risparmiò di tirare bene le marce per dimostrare di che pasta era fatta la sua scattante autovettura, costringendo gli altri che seguivano a superare i limiti che ci davamo per rientrare nel rosicato budget di cui disponevamo che prevedeva di non consumare più di tot carburante e quindi di stare sotto i 100 km all’ora.
Il piccolo convoglio avanzava brillantemente verso Savona e poi Mondovì lungo la vecchia autostrada per Torino dalle corsie con sorpasso alternato, pericolosissima, si diceva, ma che a noi mai sembrò tale.
Arrivati a destinazione e acquistati alcuni skipass (altri venivano falsificati abilmente, sempre per risparmiare) inforcavamo gli impianti per smettere di sciare solo quando avrebbero chiuso.
Bisogna dire che per noi sciare significava una sola cosa: metterci nei guai e combinare dei grossi casini. Le piste a gobbe (quelle lisciate di oggi non esistevano ancora) ci piacevano fino a un certo punto perché prevalentemente ci infilavamo nei boschi o comunque giù da pendii fuoripista. Saltavamo dalla seggiovia, andavamo all’indietro sullo skilift o in 2 o 3 alla volta, costruivamo salti sfinendoci dalle botte che prendevamo cadendo e ricordo una sensazione di umido costante addosso perché i vestiti erano sempre bagnati dalla neve fonda in cui rotolavamo facendo la lotta, in cui cadevamo lanciandoci dagli alberi o semplicemente sciando alla massima velocità per esplodere in tragicomiche nuvole bianche.
RL aveva sempre sciato col maestro o con campioni e ci diceva che quello non era sciare, ma tentava di seguirci per non restare solo e in breve tempo fu esausto. Approfittò di una breve pausa durante la quale mangiammo i panini preparati dalle nostre mamme, per riprendersi un poco, ma si vedeva che le gambe non rispondevano più da tempo alla volontà del loro padrone, figuriamoci gli sci…
Dopo l’ennesima caduta a ribaltoni nella neve fonda, RL era sull’orlo dello sfinimento mentre noi altri eravamo solo preoccupati perché di lì a poco gli impianti avrebbero chiuso.
Partimmo quindi per un’ultima risalita per scendere fuoripista, ovviamente, alla “merdaccia chi arriva ultimo”.
L’aria di mare si faceva sentire da un pezzo e la neve, polverosa al mattino, nel pomeriggio era diventata cartongesso, ma noi, nulla ci poteva fermare! RL prese velocità, perse completamente il controllo e fece l’ennesima spettacolare caduta: il suo corpo sembrava un manichino vuoto che si torceva e avvitava su se stesso fino a sbattere al suolo violentemente. Non si muoveva più, era morto! No, muoveva un braccio, la faccia sfregiata era sotto la neve macchiata di sangue. Gli usciva un rantolo dalla bocca riempita dalla neve. Cercammo di aiutarlo ma se lo toccavamo urlava come una scimmia impazzita. A quei tempi alla chiusura degli impianti non passava nessun controllo piste di sicurezza e stava diventando velocemente buio. Chiamare soccorso era l’ultima delle cose che ci sarebbe venuta in mente. Tutto era deserto e immobile e bisognava scendere in qualche modo. RL si contorceva dal dolore e piangeva mentre noi lo trascinavamo fino al fondovalle tirandolo per la giacca a vento fradicia e i suoi piedi giravano a 360 gradi come quelli di Pinocchio. Ma RL non era un cartone animato. Dal ginocchio in giù le gambe non sembravano più le sue tanto strisciavano sulla neve seguendone le asperità senza reagire.
Arrivati al parcheggio ci ingegnammo per il trasporto del ferito. Costruimmo una specie di barella con dei cartoni recuperati dai cassonetti dei rifiuti per poter sdraiare RL sul sedile dell’850 di Firpo, l’unica con i sedili ribaltabili. RL era allo stremo, sembrava un ferito di guerra di quelli che si vedevano nei film.
Neanche a dirlo Sandro, il più grande della nostra compagnia, inforcò con Libero la A112 Abarth di RL per correre a Genova, vedere quale velocità massima poteva raggiungere quel piccolo bolide e per avvisare al telefono i familiari di RL. Telefonare da Artesina sarebbe costato troppi gettoni telefonici…
Le curve per scendere a Mondovì erano una tortura per RL che sballottava al mio fianco, io cercavo di immobilizzarlo ma lui urlava di dolore e non voleva essere toccato in nessuna parte del corpo. Firpo alla guida cercava argomenti che secondo lui potevano distrarre RL dai suoi dolori lancinanti: la versione Coupé della Fiat 850 non era come la sua omonima berlina ma vantava un motore di ben 1000 cc e soprattutto, trattandosi di un’auto sportiva, aveva sospensioni molto più dure! Ecco il perché di quei sobbalzi, dolorosissimi per RL, che io cercavo di confortare facendogli mordere uno straccio tutto sporco trovato sotto al sedile.
Imboccata l’autostrada, al principio tutto sembrava filare meglio ma durò pochissimo perché poco dopo iniziò una serie di viadotti e sulle giunzioni tra le parti di cemento armato che li compongono le sospensioni dell’850 Coupé diedero il meglio di sé ricordando a RL ancora una volta che anche quella, oltre alla sua, era un’auto sportiva.
Una consuetudine alla quale non potevamo venire meno, pena lo sforare dal nostro budget domenicale, era quella di fare tutti i tratti in discesa a motore spento. Firpo non era uno spericolato, tra noi era forse il più calmo e prudente, ma per non perdere l’abbrivio non toccava mai i freni e, se serviva, si lanciava pure in sorpassi a motore spento tra le corsie del sorpasso alternato con la massima naturalezza. Diceva che per non scaricare la batteria, che a motore spento non veniva ricaricata dalla dinamo, non poteva tenere accesi gli anabbaglianti e quindi andavamo con le sole luci di posizione e i sorpassi erano un azzardo pazzesco.
Finalmente arrivammo all’ospedale Galliera di Genova. Eravamo tutti nella sala d’aspetto del Pronto Soccorso mentre gli infermieri adagiavano RL su una vera barella e lui ci guardava in lacrime e con gli occhi sbarrati, felice di essere finalmente sfuggito alle nostre manovre poco delicate.
Ce ne stavamo con l’aria mesta ad aspettare il padre di RL che era stato avvertito al telefono, ci aspettavamo un nobiluomo con Mercedes nera o con una Lancia Fulvia 2000 grigio metallizzato, ovviamente con autista in livrea. Grande fu la nostra sorpresa quando da una Fiat 850 berlina scese un ometto che correndo verso il Pronto Soccorso gridava in dialetto genovese “duv’e u l’è mèe figgiu”. Fu allora che scoprimmo, con disappunto e meraviglia, che il padre di RL faceva il portuale e che il figlio, poveraccio, aveva riportato fratture scomposte e a spirale di tibia e perone di entrambe le gambe.
Viaggiò in stampelle per mesi e mesi, fu sottoposto a numerosi interventi chirurgici e non lo vedemmo mai più.
Boccadasse (Ge) 1979 |