Sandro aveva da poco comprato una Fiat Uno Turbo e tutto ci
sembrava più vicino, così decidemmo di trascorrere un finesettimana intenso a
Chamonix partendo da Genova. Da qualche anno mi ero trasferito a vivere a
Corvara nelle Dolomiti dove facevo la guida alpina, ma nelle mezze stagioni non
rinunciavo a rivedere i vecchi amici genovesi di sempre con cui, oltre ad
arrampicare, sciare e cantare, mi divertivo come non mi riusciva di farlo con i
nuovi che mi ero fatto dove vivevo. Dove vivo tutt’ora ho diversi amici che
stimo e con cui vado d’accordo ma quello che mi è sempre mancato con loro è
quel senso pesante dell’ironia che invece posso esercitare con i miei ormai
vecchi amici del luogo dove sono nato e, in parte, cresciuto.
Tra di noi non ci sono riguardi. Possiamo essere capaci di
maltrattamenti morali reciproci che ad altri possono risultare insopportabili e
insostenibili. Posso dire vaffanculo brutto figlio di troia al mio migliore
amico certo di non offenderlo perché uso un tono affettuoso che significa che
gli voglio bene e lui lo sa. Mentre dove vivo ogni parola ha un solo
significato, con i miei vecchi amici possiamo giocare, ancora oggi, ad
attribuirgliene di diversi e la cosa ci fa sentire più liberi di manifestarci
senza filtri.
Praticare il turpiloquio per curare chi si prende troppo sul serio è attività sana come una nuotata nel mare calmo al mattino presto.
Praticare il turpiloquio per curare chi si prende troppo sul serio è attività sana come una nuotata nel mare calmo al mattino presto.
Sandro Pansini, Nord dell'Eiger 1984 |
L’equipaggio era composto, oltre Sandro e me, da Skeno,
Miagia e Franco detto il Tranviere. Cinque paia di sci sul tetto e attrezzatura
per fare fronte a ogni terreno dalla falesia all’alta montagna nel bagagliaio.
Dentro la Uno in cinque non stavamo affatto scomodi e il bagagliaio conteneva
tranquillamente i nostri cinque zaini e tutto il vettovagliamento. L’unica mia
preoccupazione erano gli sci sul tetto. La macchina andava talmente forte che
avevo paura che si staccassero dal porta-sci e finissero nel parabrezza delle
auto che seguivano in autostrada trafiggendo al petto ignare famiglie che manco
si rendevano conto del rischio che correvano. Infatti non ho mai portato gli
sci sul tetto in autostrada perché questo pensiero mi ha sempre inquietato, ma
stavolta non eravamo con la
mia auto e quindi mi dovevo adattare.
La partenza era stata ovviamente antelucana e avevamo
percorso il tunnel del Monte Bianco che fuori era ancora buio. Il viaggio mi
sembrava fosse durato pochissimo. Sarà stato per i discorsi ininterrotti, ma
sicuramente era anche dovuto alla velocità con cui quella macchina infernale
riusciva a farci viaggiare. Parlavamo di donne più che di montagne.
Colazione con fornello per terra nel parcheggio della funivia per l’Aiguille du Midi ancora chiusa e poi in coda tra biglietteria e ingresso in cabina, schiacciati tra gli sciatori. Anche noi eravamo sciatori, a parte Skeno che aveva messo gli sci solo qualche ora nella sua vita, ma tali non ci sentivamo perché nei nostri zaini c’era l’attrezzatura per scalare la Via Super-Dupont da poco aperta dai soliti noti: Piola e Steiner, e dalla fama di essere una via molto bella e piuttosto impegnativa.
Colazione con fornello per terra nel parcheggio della funivia per l’Aiguille du Midi ancora chiusa e poi in coda tra biglietteria e ingresso in cabina, schiacciati tra gli sciatori. Anche noi eravamo sciatori, a parte Skeno che aveva messo gli sci solo qualche ora nella sua vita, ma tali non ci sentivamo perché nei nostri zaini c’era l’attrezzatura per scalare la Via Super-Dupont da poco aperta dai soliti noti: Piola e Steiner, e dalla fama di essere una via molto bella e piuttosto impegnativa.
Merita raccontare una mia precedente campagna scalatoria
sull’Aiguille du Midi in compagnia di altri amici genovesi risalente a un paio
di anni prima. Costoro erano Luca Biondi detto Blond e Martino Lang.
Luca Biondi e Martino Lang oggi |
Martino era tra di noi il più aggiornato su cosa succedeva
sulle Alpi e nelle neonate falesie di tutto il mondo. Sfogliava decine di
riviste in ogni lingua e, nonostante non ne conoscesse una, capiva sempre cosa
voleva capire e ce lo raccontava condito dalla sua verve dissacratoria e poco
convincente, ma tant’é...
Il viaggio da Genova l’avevamo iniziato in treno e
proseguito in autobus e autostop da Entreves. A Chamonix, Martino, che lì si
muoveva come un consumato habitué, ci aveva detto di metterci in coda alla
funivia mentre lui avrebbe procurato qualcosa da mangiare. Lo vedemmo arrivare
con un grande sacchetto di carta pieno di croissant e pan au chocolat e un
cartone di lattine di cocacola che secondo lui ci avrebbero assicurato le
calorie necessarie per i due giorni da trascorrere ai 3800 della cima dove
avremmo alloggiato a scrocco in un tunnel segreto nella stazione della funivia,
che gli aveva svelato Giancarlo Grassi con cui ogni tanto andava in montagna.
L’obiettivo era ripetere subito dopo Pedrini e Ballerini la via, sempre di
Piola e Steiner: Monsieur de Mesmaeker, la più dura del massiccio e soprattutto
la prima a spit, ai tempi una novità che aveva sconvolto l’ambiente alpinistico
mondiale. Grazie a Martino noi in qualche modo c’eravamo e avremmo lottato per
salirla nel migliore degli stili.
All’uscita della funivia nella calca estiva tra turisti
nipponici in camicia e alpinisti di vario genere, tra cui noi in pantaloni di
tela bianca a zampa d’elefante, fascia legata intorno ai capelli e felpa in
cotone, una guida alpina dalle rughe sapienti, ci aveva detto che la via era
“mouillé” e che ci conveniva farne un’altra. Martino, che era il nostro amico
poliglotta aveva annuito con disinvoltura tale da non farci chiedere cosa
avesse voluto dirci e ci dirigemmo scivolando sul culo alla base della parete
superando decine di alpinisti che ci guardavano male, compresa la guida che,
legata al suo cliente, avrebbe sicuramente preferito lasciarsi scivolare come
noi anziché restare lentamente incolonnata. Martino per l’occasione aveva
indossato l’orecchino di coda di pavone rosa e, sorvolando sulle peripezie
tecniche lungo la via che lui voleva salire da primo ma non aveva fatto i conti
con Luca e me che ambivamo alla stessa cosa, dico solo che quel giorno nacquero
delle frasi che ancora oggi sono di uso comune nel nostro gergo.
Cito tra le molte: “dammi corda quando scatto” e “per la libera ci vuole il suo tempo”, espressioni tecnico-filosofiche scaturite istintivamente da situazioni contingenti indimenticabili, come indimenticabile fu la notte che ci aspettava. L’idea era quella di fare un’altra via il giorno seguente ma sottostimammo alcuni dettagli.
Cito tra le molte: “dammi corda quando scatto” e “per la libera ci vuole il suo tempo”, espressioni tecnico-filosofiche scaturite istintivamente da situazioni contingenti indimenticabili, come indimenticabile fu la notte che ci aspettava. L’idea era quella di fare un’altra via il giorno seguente ma sottostimammo alcuni dettagli.
Raggiunto il tunnel di uscita della stazione della funivia
recuperammo a piccozzate i croissant e le lattine di cocacola che avevamo
seppellito nella neve. Ovviamente erano un blocco di ghiaccio, impossibile
quindi mangiare e bere.
Uno dei particolari che determinarono la qualità del nostro bivacco fu il fatto che la porta di ingresso nella stazione era solidamente chiusa dall’interno e a nulla valsero il nostro bussare e urlare per farci aprire. Ci accovacciammo nei sacchi piuma distesi sulle corde e gli zaini mettendo dentro con noi anche le lattine e i croissant che non ne volevano sapere di sciogliersi per farsi ingerire, fame e sete non ci mancavano di certo.
Uno dei particolari che determinarono la qualità del nostro bivacco fu il fatto che la porta di ingresso nella stazione era solidamente chiusa dall’interno e a nulla valsero il nostro bussare e urlare per farci aprire. Ci accovacciammo nei sacchi piuma distesi sulle corde e gli zaini mettendo dentro con noi anche le lattine e i croissant che non ne volevano sapere di sciogliersi per farsi ingerire, fame e sete non ci mancavano di certo.
Dopo qualche ora passata a fumare (io no perché non fumo) e a
insultare i francesi della funivia che non ci avevano aperto, una lattina
sembrava essersi riscaldata quel tanto che consentisse di berne il contenuto.
Tirata la linguetta, Martino se la ficco in bocca mentre una schiuma marrone aveva
iniziato a zampillare violentemente. Il risultato fu che si gonfiò come un pallone
di liquido gelato a stomaco vuoto e si beccò una congestione immediata. Riverso
sulla neve colorata dalle pisciate e dalla cocacola diceva che sarebbe morto e
ci comunicava così le sue ultime volontà. Vista l’urgenza di un soccorso Luca e
il sottoscritto iniziammo a battere violentemente il portello di fredda lamiera
che ci teneva chiusi fuori gridando anche AIUTO e fu così che ci aprirono.
Martino era in condizioni pietose e ci fecero quindi entrare facendoci
accomodare in una stanzetta riscaldata dove ci sembrò di rinascere.
In poco tempo la temperatura aumentò e potemmo mangiare e bere. Martino smise di vomitare bile e si addormentò. La temperatura saliva sempre più e iniziammo a spogliarci. Di stare dentro ai sacchi piuma non se ne parlava. Martino giaceva esanime, chissà se respirava. Mancava l’aria e quella poca che c’era era bollente. I muri scottavano e forse soffrivamo anche di mal di montagna perché la testa ci scoppiava.
In poco tempo la temperatura aumentò e potemmo mangiare e bere. Martino smise di vomitare bile e si addormentò. La temperatura saliva sempre più e iniziammo a spogliarci. Di stare dentro ai sacchi piuma non se ne parlava. Martino giaceva esanime, chissà se respirava. Mancava l’aria e quella poca che c’era era bollente. I muri scottavano e forse soffrivamo anche di mal di montagna perché la testa ci scoppiava.
Sono sempre stato sensibile all’inquinamento
elettromagnetico e lì dentro, secondo me, ce n’era anche troppo. Uscito fuori,
l’escursione termica a cui fui sottoposto era di almeno 46 gradi centigradi, mi
sentivo mancare mentre notavo nel locale adiacente dei trasformatori enormi che
ronzavano come calabroni. Infatti sulla cima dell’Aiguille du Midi c’è una
gigantesca antenna collegata a mille macchinari che si trovavano proprio dove
stavamo anche noi. Del personale della funivia nessuna traccia. Sicuramente
avevano una stanza schermata dalle radiazioni che noi stavamo assorbendo alla
grande nella notte che ancora ci riservava un bel po’ di ore di insonnia
garantita. Pensammo che Martino fosse morto ma in verità pensavamo a salvare
noi sopravvissuti al gelo e ai campi magnetici. In qualche modo guadagnammo
l’alba e poi finalmente l’ora di
riapertura della funivia. Scesi in paese dedicammo la giornata intera a ritornare
a Genova in autostop. Abbandonai Luca e Martino che avevano i capelli troppo
lunghi per essere caricati su uno dei camion che attraversavano il tunnel.
Separati il viaggio ci fu più rapido. Ci rincontrammo a Finale la settimana
seguente.
Tornando a noi cinque di prima, devo citare che in un
autogrill avevamo comprato una specie di plum cake dalla rara pesantezza (altro
che piuma) che ci saremmo portati sulla via per avere calorie con relativamente
poco peso. Lo denominammo “il gatto” per via della sua forma.
Presto fummo
all’inizio della via che salimmo senza problemi fino a quando Skeno cadde su
una cengia piegato in due dal mal di pancia e di testa. Gli demmo da bere e lo
costringemmo a mangiare un pezzo del “gatto” per tirarsi su. Non aveva appetito
ma io glielo infilavo a forza in bocca mentre Miagia gliela teneva aperta contando sul fatto che non riusciva a
opporsi date le sue condizioni fisiche.
Skeno riusciva solo a dire “no, gatto non ne voglio” che noi
zac gliene infilavamo in bocca un bel pezzettone. A un certo punto si lamentò
di sentire puzza di merda e cercò di vomitare. In effetti poco prima avevo
defecato su un terrazzino facendomi il bidet con della neve ma, evidentemente
nelle mie dita era rimasto un po’ del noto profumo e con quelle maneggiavo il
“gatto” davanti al suo naso, cosa che non lo aiutava a farsi passare la nausea
probabilmente dovuta all’altitudine. Abbandonammo Skeno sulla cengia con un
pezzo di gatto e dell’acqua, e proseguimmo la via che, tranne un voletto su un
micronut di Miagia, si svolse senza problemi divertendoci. Dalla cima ci
calammo raggiungendo Skeno che si era ripreso un po’ e scendemmo insieme alla
base dove ci aspettavano gli sci.
Come avevo accennato prima Skeno non era molto abile sugli
sci e non stava neppure bene, ma dovevamo percorrere la Mer de Glace per
raggiungere il fondovalle, quindi lo infilammo negli attacchi e gli dicemmo di
seguirci e che la discesa era facile. Dalla forzata posizione a similspazzaneve
in cui si mise si capiva che faceva uno sforzo enorme anche da fermo,
figuriamoci muovendosi tra i cumuli di neve tritata dagli sciatori e rigelata
dal freddo della sera!
Skeno sembrava una statua, tanto i suoi movimenti sciatorii
erano assenti ma non cadeva se non di rado, grazie comunque alle sue doti
atletiche e a una testa dura più del normale. La discesa si protrasse fino a
una cert’ora anche perché la risalita al Montenvers e la seguente discesa
ripidissima lungo uno scivolo di valanga ci presero tempo. Era buio quando
raggiungemmo il parking della funivia. Ci buttammo in macchina e guidammo fino
a un boschetto dove volevamo sistemarci
per la notte. Fatti pochi km su una sterrata incontrammo un grosso
tronco che la sbarrava. Scesi dalla macchina e lasciando la portiera aperta mi
arrampicai sul tronco per scavalcarlo incamminandomi verso quella che sembrava
una radura da dove intravvedevo una fioca luce tra gli alberi. Fatte poche
decine di metri mi apparve un grande cerchio di persone incappucciate intorno a
un fuoco vestite con lunghe tuniche scure. Mi bloccai subito tra lo spavento e
l’imbarazzo e quelli si girarono puntando su di me i loro occhi attraverso i
cappucci in stile tra il rito satanico e Ku Klux Klan. Li vedevo illuminati dal
fuoco e non erano sguardi benevoli. Scattai di corsa nella direzione da cui ero
pervenuto e mi ritrovai subito sul tronco da dove saltai direttamente
attraverso la porta della Fiat Uno urlando VIA, VIA, scappiamo! Il mio salto
prevedeva di entrare velocemente in macchina ma diedi una testata fortissimo
sul montante superiore della porta cadendo per terra stordito. Urlavo a Sandro
di scappare mentre mi ero già seduto e avevo chiuso la porta. Lui non se lo
fece ripetere e in retromarcia ad almeno 50 km orari sgommando sulla ghiaia
perforammo la notte fuggendo all’indietro. Quando gli raccontai degli
incappucciati nessuno voleva credermi e comunque andammo a dormire nel
parcheggio illuminato di una scuola.
Skeno si sarebbe incontrato con una ragazza il giorno dopo e
ci lasciò ma era già arrivato da Courmayeur il suo sostituto: Blanche!
Berrettino alla cuculo, occhiale Vuarnet, microzaino e sci di marca, sembrava
uscito da una rivista patinata ma quando ci infilammo nella cabinovia di
Argentiere e arrivammo sui Grand Montets capì immediatamente che la sua
giornata sulla neve non sarebbe stata un aperitivo al Brevént. Oggi si sciava!
Facemmo pochi metri sulle piste perché l’obiettivo era starne al di fuori il
più possibile. Cercavamo terreno ripido su cui metterci alla prova perché il
giorno dopo saremmo saliti su per la parete nordest de Les Courtes per scenderla con gli sci. Ci sfinimmo di
curve e salti e quando gli impianti si spensero ci avvicinammo con le pelli al rifugio
d’Argentière. Il Tranviere e Blanche erano preoccupati perché guardandosi
intorno vedevano facce che non promettevano nulla di buono e fuori dalle
vetrate del rifugio non riuscivano a scorgere dove si sarebbe potuto sciare, ma
non dicevano niente al riguardo.
Dopo la solita sbobba andammo a dormire in una camerata puzzolente che certamente non contribuimmo a profumare. Verso le due suonò la sveglia. Blanche di soprassalto gridò da sotto una coperta pulciosa: ma che cazzo succede? Dobbiamo alzarci, fu la nostra risposta. Guardato l’orologio ci disse se eravamo scemi e cosa ci passasse per la testa per svegliarci nel cuore della notte! Non gli spiegammo che era normale farlo e lo lasciammo dormire anche per il suo bene. Con inconsapevole leggerezza gli salvammo la vita.
Fuori la neve scricchiolava sotto i ramponi indurita dal
freddo notturno e le stelle che facevano brillare gli scudi ghiacciati delle
pareti nord ci facevano stare zitti per la solennità di quei momenti che
immediatamente ti fanno capire che aver puntato la sveglia così presto non è
stata una brutta idea.
Io e Miagia eravamo sicuramente i più eccitati e avanzavamo
rapidi verso la parete. Quando superammo la crepaccia terminale vedevamo Sandro
e il Tranviere iniziare la salita del conoide che collega questo versante con
il piatto ghiacciaio di Argentière. Sapevamo che Sandro era il più esperto,
anche perché il Tranviere non aveva mai fatto nulla di simile, e avrebbe preso
le decisioni giuste. Infatti fu così che poco dopo aver superato anche loro la
terminale decisero di scendere perché il Tranviere tremando come una foglia
continuava a chiedere perché avrebbero dovuto salire su per quel pendio
ghiacciato da dove lui sicuramente non sarebbe mai sceso sciando. Erano fuori
dalla nostra vista e ci raccontarono dopo la piccola tragedia che si era
consumata –perché scendere è più complicato che salire- mentre Marco (Miagia è il nome con cui
l’abbiamo sempre apostrofato) e il sottoscritto arrivavamo in vetta fin troppo
presto. Si, perché su quel ghiaccio non avrebbe sciato neppure Jean Marc
Boivin. Aspettammo che il sole scaldasse il pendio per regalarci un po’ di neve
sciabile, addormentandoci sugli zaini. Dopo non ricordo più quanto tempo
decidemmo di iniziare a scendere. Il ghiaccio c’era eccome e fortunatamente i
miei sci Omeglass da slalom di 203 cm erano una cannonata, che però non mi
evitò una derapata un po’ fuori controllo finché le lamine si poterono
aggrappare a una base un po’ più morbida permettendomi di fare la prima curva.
Miagia fece lo stesso e da lì in poi la
discesa durò un istante.
Non era ancora nato in me quel senso che mi fa preoccupare
del compagno che, facendo la guida alpina, si sarebbe in futuro radicato nel
mio animo rovinando il mio alpinismo ma sicuramente arricchendo la mia vita. Il
prezzo da pagare per garantire un minimo di sicurezza a chi si lega con te è
che le tue energie le devi dividere in due e è molto difficile riuscire a
gestire la giusta quantità di energia che devi dedicare all’altro quando lo
vedi in difficoltà, quando lo devi incoraggiare o quando non devi dare a vedere
che sei preoccupato per non fare preoccupare anche lui segnando l’inizio della
fine di quella tensione equilibrata che ti fa stare ancora lì, anche se sei nel
posto più inospitale della Terra. Avrei imparato nei decenni a farlo, ma nel
frattempo mi ero bruciato molte possibilità personali in alpinismo perché non
potevo pensare solo a me stesso. L’alpinismo estremo è praticato da egoisti
estremi. L’egoismo può essere una caratteristica positiva quando ti salva la
pelle o ti porta dove vuoi. Una guida si deve dividere sempre in due,
raddoppiando necessariamente le sue forze interiori e fisiche, per questo
motivo alla sera si è stanchi, ma solo quando te lo puoi permettere. Con
l’esperienza profonda di me stesso avrei riscoperto le mie possibilità residue,
perché comunque gli anni passano, incontrando pochi compagni perfetti per
questa verifica. E’ successo raramente, ma quando senti di poter contare
sull’altro e l’altro fa lo stesso con te, si verifica quella situazione in cui
ci si sente una macchina perfetta per andare avanti ognuno con la sua libertà e
la sua dipendenza dall’altro che diventano assurdamente la stessa cosa. Non
occorre poter contare sulla forza fisica del tuo compagno, ma ti aiuta
inconsciamente a sentirti sereno il suo sguardo, le sue battute e l’avvertire
il suo senso di giustizia nei confronti del posto in cui ti trovi con lui. Se
tu ricambi questa sensazione senza volerlo, tutto tende alla perfezione senza
mai raggiungerla e ci si diverte da morire! Per questo si scalano le montagne.
Sotto il Gr.Capucin 1981 |
Con un salto della crepaccia terminale ci lasciammo
scivolare lungo il ghiacciaio fino al rifugio che era ancora mattina. Ci sembrò
facile, le nostre gambe erano buone e la nostra giovane testa abbastanza
incosciente da farci fare cose anche molto più impegnative di questa e il bello
è, per me, che non ho ancora smesso.
Recuperati gli amici, la neve ormai resa colla dal sole di
primavera inoltrata ci scarrozzò a fondovalle dove ci stipammo nella Uno Turbo
–non so perché gli stessi bagagli al ritorno sembrano occupare più spazio che
all’andata- che fendendo il buio illuminato artificialmente del tunnel sotto al
Monte Bianco ci depositò a Courmayeur per un gelato e per lasciare Blanche
nella villa dove era ospite.