IL VOLO DELLO STORNELLO
Questa storia, mi è stato chiesto di raccontarla così tante
volte che mi sono stufato. Quindi la scrivo e la rendo pubblica per non doverla
più raccontare a voce. La romanzerò lievemente e la vorrei infarcire di note
solo apparentemente fuori tema, ma che
secondo me, invece servono a immergersi nell’atmosfera e nel tempo in cui si
svolse. Prima di iniziare a raccontarla vorrei sottolineare che non si tratta
di nulla di eccezionale e che di cose così, a quei tempi, ne succedevano molte
e quasi sempre, e sottolineo il quasi, finivano bene. Come questa.
Ecco, ora che vi ho tolto definitivamente la suspance, posso iniziare.
Ecco, ora che vi ho tolto definitivamente la suspance, posso iniziare.
Genova 1978.
Il gruppo di amici che frequento, oggi si definirebbe intellettuale. Non che ci fossero dei geni o dei talenti particolari in qualche campo, ma la nostra “compagnia” era quanto mai variegata in quanto a connotazioni sociali, politiche, sportive e artistiche. Le nostre età andavano dai 17 anni dei più giovani ai 22 dei più “anziani” e il nostro agglomerante era il gruppo di Scout al quale appartenevamo: il Genova 1.
Detto gruppo inglobava, a seguito di una recente manovra socio-economica della dirigenza, le zone di San Nicola: quartiere medio-alto borghese della parte a mezzacosta della città, La Maddalena: ricettacolo di popoli del centro storico dalla prostituta all’armatore e Oregina: quartiere operaio con un passato nobile situato in “montagna” rispetto al centro città. Un amalgama siffatto poteva solo generare disparità d’ogni sorta ma allo stesso tempo c’era un gran fermento tra noi. Non stavamo mai fermi, in tutti i sensi e c’erano quelli politicamente impegnati (tutti a sinistra), i tossici, gli artisti, i musicisti, gli atleti e gli appassionati di motori.
Il gruppo di amici che frequento, oggi si definirebbe intellettuale. Non che ci fossero dei geni o dei talenti particolari in qualche campo, ma la nostra “compagnia” era quanto mai variegata in quanto a connotazioni sociali, politiche, sportive e artistiche. Le nostre età andavano dai 17 anni dei più giovani ai 22 dei più “anziani” e il nostro agglomerante era il gruppo di Scout al quale appartenevamo: il Genova 1.
Detto gruppo inglobava, a seguito di una recente manovra socio-economica della dirigenza, le zone di San Nicola: quartiere medio-alto borghese della parte a mezzacosta della città, La Maddalena: ricettacolo di popoli del centro storico dalla prostituta all’armatore e Oregina: quartiere operaio con un passato nobile situato in “montagna” rispetto al centro città. Un amalgama siffatto poteva solo generare disparità d’ogni sorta ma allo stesso tempo c’era un gran fermento tra noi. Non stavamo mai fermi, in tutti i sensi e c’erano quelli politicamente impegnati (tutti a sinistra), i tossici, gli artisti, i musicisti, gli atleti e gli appassionati di motori.
Si andava dalle due ruote, fino alle quattro, ovvero dalla
Vespa 125 TS alla Lancia Stratos di Sandro Munari che sbancava nel mondiale
rally.
Lancia Stratos |
La Vespa non era un mito allora. Era semplicemente il mezzo più
economico che potevi permetterti da giovane, che i tuoi genitori ti potevano comprare
o che ti guadagnavi dopo una stagione facendo il cameriere o la hostess alla
Fiera del mare. Io avevo una Primavera 125 che avevo cercato di truccare
sostituendo praticamente ogni pezzo del motore comprandone usati e montandoli
con l’aiuto dei più esperti tra noi. Dal meccanico ci andavano solo gli
incapaci e il faidaté non esisteva di nome ma era un fatto scontato. Per un
pomeriggio andò fortissimo, ma proprio per questo gli “amici” mi fecero uno
scherzo versando nel serbatoio una bottiglia di amaro Petrus e infilando uno
straccio nella marmitta Pinasco a espansione (pagata una fortuna pure da
usata). La bottiglia di Petrus Bonekamp la rubò Maurizio dal negozio di suo
padre, lo straccio lo trovarono per strada. Da quel momento funzionò sempre
malissimo e io vissi nel ricordo di quel pomeriggio da leoni in cui “volava” e
mi bevevo tutte le TS e le GTR, che non tornò più. Chi mi dava del filo da
torcere, ma non in discesa perché la Primavera in curva era imbattibile
potendosi piegare molto di più delle altre Vespe perché aveva le pedane più
alte che non toccavano l’asfalto lateralmente, era la 150 Sprint Veloce di
Sandro, una vera scheggia!
Dopo essermi schiantato contro un cassonetto della rumenta (=spazzatura) di quelli di lamiera della ditta Morteo (un nome, un programma) il telaio si piegò tanto che il manubrio toccava la sella. La riallungai con il cric della NSU Prinz di mia madre, ma un giorno, verso i Piani di Praglia, mentre sfrecciavo con dietro la mia fidanzata ben abbracciata, una cunetta ci compresse al punto che il manubrio si riavvicinò di colpo alla sella costringendoci a sopravvivere avventurosamente fino a fermarci miracolosamente senza cadere. La raddrizzai una seconda volta e la usai un po’ per andare a scuola finché un noto teppista mi chiese di vendergliela, così me ne separai senza troppo rimpianto. A quei tempi i mezzi meccanici si amavano come fossero parte della famiglia e mi stupì quasi che la separazione non mi provocò sofferenze di alcun tipo. Il nuovo acquirente morì pochi giorni dopo per overdose di eroina e la mia Vespa passò a un suo fratello maggiore che la usò per delle rapine fino a quando lo arrestarono e gli fecero scontare tutto quello che aveva combinato fino ad allora. Credo sia in galera ancora oggi, pace all’anima sua.
I rally li seguivamo da tifosi e andavamo a vedere quelli che passavano nel basso Piemonte, ovviamente in Vespa e al ritorno ci sentivamo così elettrizzati dalla gara che guidavamo come folli nella notte e qualcuno finì vicino a lasciarci le penne. La Stratos era come un dio a motore ma c’erano anche le Alpine Renault, le Fiat 124 e 131 Abarth, le Saab Turbo, le Triumph Dolomite, le Autobianchi A111 e A112, le Porsche Carrera, le Opel Kadett Conrero, le Ford Escort Mexico… macchine di cui sapevamo tutto, dalla meccanica alle fidanzate dei piloti.
Dopo essermi schiantato contro un cassonetto della rumenta (=spazzatura) di quelli di lamiera della ditta Morteo (un nome, un programma) il telaio si piegò tanto che il manubrio toccava la sella. La riallungai con il cric della NSU Prinz di mia madre, ma un giorno, verso i Piani di Praglia, mentre sfrecciavo con dietro la mia fidanzata ben abbracciata, una cunetta ci compresse al punto che il manubrio si riavvicinò di colpo alla sella costringendoci a sopravvivere avventurosamente fino a fermarci miracolosamente senza cadere. La raddrizzai una seconda volta e la usai un po’ per andare a scuola finché un noto teppista mi chiese di vendergliela, così me ne separai senza troppo rimpianto. A quei tempi i mezzi meccanici si amavano come fossero parte della famiglia e mi stupì quasi che la separazione non mi provocò sofferenze di alcun tipo. Il nuovo acquirente morì pochi giorni dopo per overdose di eroina e la mia Vespa passò a un suo fratello maggiore che la usò per delle rapine fino a quando lo arrestarono e gli fecero scontare tutto quello che aveva combinato fino ad allora. Credo sia in galera ancora oggi, pace all’anima sua.
I rally li seguivamo da tifosi e andavamo a vedere quelli che passavano nel basso Piemonte, ovviamente in Vespa e al ritorno ci sentivamo così elettrizzati dalla gara che guidavamo come folli nella notte e qualcuno finì vicino a lasciarci le penne. La Stratos era come un dio a motore ma c’erano anche le Alpine Renault, le Fiat 124 e 131 Abarth, le Saab Turbo, le Triumph Dolomite, le Autobianchi A111 e A112, le Porsche Carrera, le Opel Kadett Conrero, le Ford Escort Mexico… macchine di cui sapevamo tutto, dalla meccanica alle fidanzate dei piloti.
Fiat 124 Rally e me 1979 |
La moto più bella, fiera e armoniosa che c’era nel nostro
gruppo di amici, secondo me, era quella di Dudy. Lui era un sangue misto
nordamericano e messicano finito a Genova non ricordo più come e possedeva,
prendete fiato e stupitevi: una Moto Guzzi Stornello Scrambler 125 bianca e
rossa. Fatto inedito a quel tempo: anche il telaio era rosso. Quel
monocilindrico girava come se conoscesse il moto perpetuo e la sua fluidità nel
rumore e nell’erogazione della –modestissima- potenza erano un insieme perfetto.
Potevi accelerare in qualsiasi marcia che la moto andava avanti come un gozzo
spinto da un entrobordo diesel al rientro da una pesca fortunata. La sella
corta e larga era per un solo passeggero ma in verità ne ospitava comodamente
due e proponeva una posizione di guida da cavallo da tiro. Un mezzo da lavoro
sporco, non da dressage come le neonate KTM fighette e costosissime.
Dudy mi aveva in simpatia e ogni tanto mi lasciava la suo Stornello per farmi un giretto di qualche minuto perché mi vedeva tornare ogni volta con un gran sorriso.
Dudy mi aveva in simpatia e ogni tanto mi lasciava la suo Stornello per farmi un giretto di qualche minuto perché mi vedeva tornare ogni volta con un gran sorriso.
Le moto più diffuse si dividevano in quelle da strada e
quelle da regolarità, specialità fuoristrada simile al motocross. Le Scrambler
erano la via di mezzo. La Ducati faceva i suoi tre modelli 250, 350 e 450 che
erano dei catorci terribili, dalle vibrazioni esagerate che un giorno si e uno
no dovevi stringere tutti i bulloni perché si svitavano. Mi fa ridere che oggi
una Ducati Scrambler sia un modello costoso e molto alla moda se penso alla
baracca che era a quei tempi.
C’erano poi le Gilera, dei gioielli purtroppo scomparsi. Un discorso a parte lo meritavano le Moto Morini Corsaro, dei mezzi dalla ciclistica raffinatissima e dai motori superlativi che rappresentavano l’incubo delle, molto più potenti giapponesi, Kawasaki in testa, che avevano dei telai osceni e dei freni da bicicletta. Recuperarono col tempo, ma anche perché questi marchi nostrani scomparvero vittime di un estetica troppo classica che non seppe evolversi al momento giusto. Oggi sono dei gingilli da collezione che hanno una personalità introvabile nei mostri nipponici.
Adriano si era diplomato l’anno prima all’Istituto Nautico e aveva trovato subito un imbarco su una petroliera che se lo portò in giro per il mondo come ultimo ufficiale per otto mesi. Al suo ritorno aveva così tanti soldi che poteva permettersi qualsiasi cosa. Intendiamoci. Per qualsiasi cosa, voglio dire, tra quelle che ci piacevano, che non erano di certo stroppo lontane da noi stessi. Un paio di jeans Spitfire, un paio di stivali in cuoio Camperos, un paio di occhiali Ray Ban a goccia un trench blu o beige che si chiamava Scotch e un bell’impianto HI FI per ascoltare The Dark Side of The Moon. Piatto Akai, ampli Marantz, mangiacassette Pioneer e casse JBL erano il sogno di tutti e Adriano li aveva in società col fratello maggiore per dividere la spesa d’acquisto. Anche un’automobile gli avrebbe fatto comodo tra le cose che poteva permettersi ma c’era un problema: non aveva la patente. Non aveva mai preso neppure quella per la moto e io ero… il suo autista.
C’erano poi le Gilera, dei gioielli purtroppo scomparsi. Un discorso a parte lo meritavano le Moto Morini Corsaro, dei mezzi dalla ciclistica raffinatissima e dai motori superlativi che rappresentavano l’incubo delle, molto più potenti giapponesi, Kawasaki in testa, che avevano dei telai osceni e dei freni da bicicletta. Recuperarono col tempo, ma anche perché questi marchi nostrani scomparvero vittime di un estetica troppo classica che non seppe evolversi al momento giusto. Oggi sono dei gingilli da collezione che hanno una personalità introvabile nei mostri nipponici.
Adriano si era diplomato l’anno prima all’Istituto Nautico e aveva trovato subito un imbarco su una petroliera che se lo portò in giro per il mondo come ultimo ufficiale per otto mesi. Al suo ritorno aveva così tanti soldi che poteva permettersi qualsiasi cosa. Intendiamoci. Per qualsiasi cosa, voglio dire, tra quelle che ci piacevano, che non erano di certo stroppo lontane da noi stessi. Un paio di jeans Spitfire, un paio di stivali in cuoio Camperos, un paio di occhiali Ray Ban a goccia un trench blu o beige che si chiamava Scotch e un bell’impianto HI FI per ascoltare The Dark Side of The Moon. Piatto Akai, ampli Marantz, mangiacassette Pioneer e casse JBL erano il sogno di tutti e Adriano li aveva in società col fratello maggiore per dividere la spesa d’acquisto. Anche un’automobile gli avrebbe fatto comodo tra le cose che poteva permettersi ma c’era un problema: non aveva la patente. Non aveva mai preso neppure quella per la moto e io ero… il suo autista.
Non avevo ancora 18 anni per portare un passeggero in sella
alla mia Vespa 125 ma Adriano avrebbe pagato qualsiasi multa. E anche se
fossimo passati col rosso, se avessimo percorso sensi vietati o se fossimo
andati troppo forte. Tu vai, mi diceva, se ci fermano pago io! E fu così che
andavamo come pazzi ovunque senza rispettare nessuna regola del codice
stradale. Anzi cercando di infrangerne il più possibile. Non ci fermò mai
nessuna pattuglia della stradale, dei carabinieri e neppure un vigile urbano,
cosa che mi era successa in altre occasioni in cui avevo commesso infrazioni
ridicole se paragonate a quelle in cui potevo incorrere quando trasportavo
Adriano. Per pagare certe contravvenzioni andavo a lavorare da una mia zia che
aveva una pellicceria. Un lavoro che detestavo perché ho sempre amato gli
animali, ma le multe andavano pagate e quello era almeno un sistema onesto per
fare qualche soldo.
Quel pomeriggio Dudy mi lasciò il suo Stornello e appena partito mi fermai dietro l’angolo per far salire Adriano. Ci dirigemmo verso il Righi, sulle alture di Genova, tirando per bene le marce raggiungendo una discreta velocità. Lo Stornello cantava come un usignolo e, a differenza della Vespa, si guidava anche tenendolo stretto con le gambe, tra le quali rombava quello che per me era il più bel monocilindrico di quegli anni. La Moto Guzzi faceva altri modelli più grandi di cilindrata che si chiamavano Lodola, Galletto, Falcone, Condor… una passione per gli uccelli si direbbe, infatti quel giorno il nostro modesto Stornello volò come un’Aquila!
Ero perfettamente conscio di quello che stavo per fare e pensavo che uno come Adriano sarebbe stato solo d‘accordo perché si trattava di una manovra rischiosissima e sicuramente non consentita dal codice stradale.
Non appena imboccammo la via che porta al Parco del Peralto, vento nei capelli, ingranai orgogliosamente la quinta, che era una marcia che pochissimi mezzi meccanici dell’epoca avevano. Alla fine del primo rettilineo c’è una curva a sinistra e l’asfalto è così granuloso e ruvido che potresti farla a tutta velocità anche se hai sotto delle ruote di legno. Ma noi proseguimmo dritti infilando una ripida rampa di terra che ci sparò in aria come lanciati da una catapulta. La zona di atterraggio era uno spiazzo triangolare piuttosto grande, con tutto lo spazio per frenare ma non avevo tenuto conto che al centro dello spiazzo c’era un grosso albero. O meglio, l’albero non era di certo una sequoia come dimensioni, ma era abbastanza consistente per averlo sulla nostra traiettoria, soprattutto perché ormai eravamo per aria a qualche metro di altezza dal suolo e lanciati a una velocità totalmente inadatta alla situazione. Adriano fece un lungo urlo che dalla gioia passò al terrore per poi finire nella disperazione, perché ormai era chiaro a entrambi che ci saremmo schiantati contro l’albero e saremmo crepati! Vedevo chiaramente la scena di cui eravamo protagonisti come fossi uno spettatore seduto su una delle panche di ferro che corredano ancora quel ritaglio di verde pubblico cittadino, ma invece, nella realtà ero sulla moto.
A quel punto tentai goffamente, ma in quel momento non mi sentivo assolutamente goffo, di sterzare inclinando la moto verso destra, ma non successe nulla perché continuavamo a volare. Oltrepassammo l’albero senza colpirlo e questo era già un ottimo risultato, ma il terreno ghiaioso ci aspettava lì sotto e su quello rovinammo con la moto tutta inclinata di lato e la velocità che non era di certo calata. L’urto fu bestiale. Iniziammo a scivolare sui nostri corpi ancora aggrappati allo Stornello che con noi strisciava sulla terra portandoci via pezzi di carne. Finalmente si fermò. Io avevo una gamba sotto la moto e Adriano era già in piedi e roteava in circolo saltando e gridando di dolore, ma si muoveva agilmente. Era una maschera di sangue e aveva i vestiti strappati ma riuscì a sollevare la moto e a farmi rialzare. Stavo in piedi anch’io e mi guardavo le ferite riempite di terra. I dolori erano dappertutto ma gambe e braccia si articolavano e mi muovevo a stento, ma mi muovevo. Davanti a noi c’era un signore dall’aria stravolta che aveva assistito allo spettacolo. Si, perché vederci arrivare volando come su un cavallo alato, stando a terra, doveva essere stato bellissimo. La seconda parte dello spettacolo si proponeva come drammatica ma il tutto non era ancora finito. Mi avvicinai al signore impietrito e allungando una mano sanguinante gli chiesi per favore lo straccio con cui stava pulendo la sua automobile. Me lo lasciò senza accorgersene e noi ci pulimmo le ferite, mie e sue, dalla terra e dal sangue, intingendo più volte lo straccio nell’acqua putrida del ruscelletto che bordeggiava lo spiazzo. Zoppicanti raddrizzammo le forcelle dello Stornello che ripartì al primo colpo di pedivella e inforcandolo nuovamente andammo a casa mia a medicarci. Mia madre, vedendoci, voleva chiamare un’ambulanza ma ci bastò un po’ di cotone, dell’acqua ossigenata e molti cerotti e bende. Avevamo paura di farci dare dei punti da un medico. Ci cambiammo anche i vestiti e uscimmo dicendo che eravamo caduti dalle scale. Mia madre ancora oggi non sa cosa fosse successo davvero. Riportammo la moto a Dudy che, impegnato in una sfida a calciobalilla, non fece caso a qualche riga in più sul serbatoio, già che lo Stornello ne aveva di precedenti. E poi quelle moto avevano poca o nulla carrozzeria ed erano robustissime.
Non vide neppure fasciature e cerotti perché mi ero vestito in maniera da nasconderli.
Guardando dentro il serbatoio mi disse dove fossi andato per consumare tutta quella benzina. Gli diedi 500 lire, ci salutammo e voltato l’angolo me ne feci dare 250 da Adriano.
Quel pomeriggio Dudy mi lasciò il suo Stornello e appena partito mi fermai dietro l’angolo per far salire Adriano. Ci dirigemmo verso il Righi, sulle alture di Genova, tirando per bene le marce raggiungendo una discreta velocità. Lo Stornello cantava come un usignolo e, a differenza della Vespa, si guidava anche tenendolo stretto con le gambe, tra le quali rombava quello che per me era il più bel monocilindrico di quegli anni. La Moto Guzzi faceva altri modelli più grandi di cilindrata che si chiamavano Lodola, Galletto, Falcone, Condor… una passione per gli uccelli si direbbe, infatti quel giorno il nostro modesto Stornello volò come un’Aquila!
Ero perfettamente conscio di quello che stavo per fare e pensavo che uno come Adriano sarebbe stato solo d‘accordo perché si trattava di una manovra rischiosissima e sicuramente non consentita dal codice stradale.
Non appena imboccammo la via che porta al Parco del Peralto, vento nei capelli, ingranai orgogliosamente la quinta, che era una marcia che pochissimi mezzi meccanici dell’epoca avevano. Alla fine del primo rettilineo c’è una curva a sinistra e l’asfalto è così granuloso e ruvido che potresti farla a tutta velocità anche se hai sotto delle ruote di legno. Ma noi proseguimmo dritti infilando una ripida rampa di terra che ci sparò in aria come lanciati da una catapulta. La zona di atterraggio era uno spiazzo triangolare piuttosto grande, con tutto lo spazio per frenare ma non avevo tenuto conto che al centro dello spiazzo c’era un grosso albero. O meglio, l’albero non era di certo una sequoia come dimensioni, ma era abbastanza consistente per averlo sulla nostra traiettoria, soprattutto perché ormai eravamo per aria a qualche metro di altezza dal suolo e lanciati a una velocità totalmente inadatta alla situazione. Adriano fece un lungo urlo che dalla gioia passò al terrore per poi finire nella disperazione, perché ormai era chiaro a entrambi che ci saremmo schiantati contro l’albero e saremmo crepati! Vedevo chiaramente la scena di cui eravamo protagonisti come fossi uno spettatore seduto su una delle panche di ferro che corredano ancora quel ritaglio di verde pubblico cittadino, ma invece, nella realtà ero sulla moto.
A quel punto tentai goffamente, ma in quel momento non mi sentivo assolutamente goffo, di sterzare inclinando la moto verso destra, ma non successe nulla perché continuavamo a volare. Oltrepassammo l’albero senza colpirlo e questo era già un ottimo risultato, ma il terreno ghiaioso ci aspettava lì sotto e su quello rovinammo con la moto tutta inclinata di lato e la velocità che non era di certo calata. L’urto fu bestiale. Iniziammo a scivolare sui nostri corpi ancora aggrappati allo Stornello che con noi strisciava sulla terra portandoci via pezzi di carne. Finalmente si fermò. Io avevo una gamba sotto la moto e Adriano era già in piedi e roteava in circolo saltando e gridando di dolore, ma si muoveva agilmente. Era una maschera di sangue e aveva i vestiti strappati ma riuscì a sollevare la moto e a farmi rialzare. Stavo in piedi anch’io e mi guardavo le ferite riempite di terra. I dolori erano dappertutto ma gambe e braccia si articolavano e mi muovevo a stento, ma mi muovevo. Davanti a noi c’era un signore dall’aria stravolta che aveva assistito allo spettacolo. Si, perché vederci arrivare volando come su un cavallo alato, stando a terra, doveva essere stato bellissimo. La seconda parte dello spettacolo si proponeva come drammatica ma il tutto non era ancora finito. Mi avvicinai al signore impietrito e allungando una mano sanguinante gli chiesi per favore lo straccio con cui stava pulendo la sua automobile. Me lo lasciò senza accorgersene e noi ci pulimmo le ferite, mie e sue, dalla terra e dal sangue, intingendo più volte lo straccio nell’acqua putrida del ruscelletto che bordeggiava lo spiazzo. Zoppicanti raddrizzammo le forcelle dello Stornello che ripartì al primo colpo di pedivella e inforcandolo nuovamente andammo a casa mia a medicarci. Mia madre, vedendoci, voleva chiamare un’ambulanza ma ci bastò un po’ di cotone, dell’acqua ossigenata e molti cerotti e bende. Avevamo paura di farci dare dei punti da un medico. Ci cambiammo anche i vestiti e uscimmo dicendo che eravamo caduti dalle scale. Mia madre ancora oggi non sa cosa fosse successo davvero. Riportammo la moto a Dudy che, impegnato in una sfida a calciobalilla, non fece caso a qualche riga in più sul serbatoio, già che lo Stornello ne aveva di precedenti. E poi quelle moto avevano poca o nulla carrozzeria ed erano robustissime.
Non vide neppure fasciature e cerotti perché mi ero vestito in maniera da nasconderli.
Guardando dentro il serbatoio mi disse dove fossi andato per consumare tutta quella benzina. Gli diedi 500 lire, ci salutammo e voltato l’angolo me ne feci dare 250 da Adriano.