Così qualche giorno fa con il mio "socio" Franz Salvaterra ce ne siamo andati sul Crozzon di Brenta a ripetere la Via delle Guide.
C'abbiamo messo un giorno, mentre i nostri predecessori ce ne avevano messi 8.
Certo, nel 1969 c'era molta più neve, più freddo e tutte quelle cose lì. Loro partivano non appena la fabbrica gli lasciava il tempo e la motivazione che li spingeva a fare per la prima volta una cosa tanto notevole non era di certo la nostra di fancazzisti con tanto tempo a disposizione.
Il versante settentrionale del Crozzon di Brenta |
Tornando alla canzone di Clapton: è un po' la stessa cosa, se ci pensate, MI7-LA-SI-MI7/SI, un giro di blues che più semplice non si può. Eppure io su quel giro di accordi sono stato in grado tutt'al più di ricavarci "Gabibbo Blues" (ah, ah, ah) mentre il vecchio Slowhand c'ha tirato fuori Before you accuse me. Ascoltatela se non la conoscete (godevela!) e perdonatemi il parallelismo tra musica e alpinismo ma sono due caratteristiche costanti della mia esistenza da cui fortunatamente non posso sottrarmi.
Lascio al mio compagno d'avventura (è il nome giusto) la descrizione, che solo chi avrà curiosità e insonnia potrà leggere.
Ho appena finito di rileggere il racconto di Gianni Rusconi
dal libro “Il grande alpinismo invernale”, sulla prima invernale, appunto, alla
Via delle Guide sulla nordest del Crozzon di Brenta.
A dire il vero avrei voluto leggerlo prima di partire per il
Crozzon, ma nel disordine di casa mia non trovavo il libro, forse sepolto sotto
l’attrezzatura che con Marcello (Cominetti, con cui intendevo partire per
questa gita) stavamo frettolosamente
preparando. Quindi ora me lo sono goduto di fronte al caminetto a salita
compiuta.
Cala la notte, i giorni di gennaio sono cortissimi... |
Se devo essere onesto la loro salita invernale è stata veramente una grande impresa e
un'avventura che li ha spinti al limite delle forze, la nostra al paragone è
stata una cosa molto meno sofferta e affascinante, pur avendoci regalato momenti
indimenticabili legati sicuramente al fascino dell’inverno che restituisce alla
montagna la sua staticità assoluta.
A distanza di quasi 50 anni, stride il confronto tra la
spedizione “pesante” dei Rusconi e compagni, se raffrontata alla nostra: leggerissima
e quasi spensierata, ma non troppo.
Sicuramente noi l’abbiamo affrontata perché le condizioni
meteo erano quelle più favorevoli: poca neve in parete, tempo stabile e
temperature non estremamente basse. Noi avevamo dalla nostra la possibilità di partire al momento giusto e la facilità nel
metterci d’accordo, essendo solo in due e facendo lo stesso lavoro: le guide disoccupate.
Franz alle jumar |
Ma veniamo alla cronaca.
Roberto Chiappa, Gianluigi Lanfranchi (detto Pomela),
Antonio Rusconi e Giovanni Rusconi attaccano la grande parete nordest del
Crozzon il 7 marzo 1969. E' tutto l'inverno che fanno avanti e indietro da
Lecco assediando questa via, nel tentativo più serio partecipano anche Alessandro
Gogna con Leo Cerruti, riescono ad arrivare fino alla grande cengia alla base
delle placche nere, la parte tecnicamente di grado più elevato. C’è da dire che
le difficoltà maggiori si incontrano sui tiri di quarto grado, dove la neve si
deposita sugli appigli e nasconde gli appoggi, i pochi chiodi e su cui non
sempre è facile decidere se progredire con gli scarponi, se mettere i ramponi o addirittura le scarpette.
Sulla fascia nera |
Per ben 6 giorni (5 bivacchi) i lecchesi combattono con
diedri e placche intasate di neve, il termometro talvolta segna -30 gradi, e mi
sembra un po’ strano, però.... Non hanno le maniglie jumar e risalgono le corde
con i nodi prusik, appesa alle imbragature artigianali insieme ai chiodi da
roccia portano una spazzola per pulire la neve dagli appigli! Verso la cima gli
cade una sacca con i viveri e si ritrovano in vetta, per fortuna nel ventre
materno del bivacco Castiglioni con poco cibo e nel mezzo di una tempesta.
Essere lassù in quella scatola di latta è sicuro quanto ritrovarsi in mezzo al
mare grosso con una barchetta. Si sopravvive ma bisogna assolutamente togliersi
da lì!
Il giorno dopo, tra vento e slavine, impiegano tutte le ore
di luce per traversare dalla vetta del
Crozzon a quella della Tosa. Infatti la discesa non è banale neppure d’estate. Qui
fanno il settimo bivacco in un buco nella neve, sono allo stremo delle forze,
immaginate, senza sacchi da bivacco in Goretex, con le moffole di lana e le
giacche di cotone!
Negli ultimi momenti Gianni preso dallo sconforto pensa alla
frase di Pierre Mazeaud dopo la tragedia del Freney del 61': “ Il dramma è
iniziato e non ce ne siamo accorti”.
Franz laggiù |
Franz lassù |
La “nostra” invernale è fortunatamente molto meno sofferta:
il 24 gennaio saliamo al rifugio Brentei dalla val Brenta, partiamo da casa mia
a Tione dopo un ottimo pranzo e arriviamo al rifugio alle ultime luci. Fino a
poco sotto la Malga Brenta Alta praticamente non c'è neve, poi mettiamo le
ciaspe. Anche le temperature sono dalla
nostra, fino a un paio di giorni fa a Campiglio la temperatura è scesa fino a
-18, ora si è alzata di almeno 10 gradi. La mattina del 25 la sveglia suona alle tre e mezza. Prima delle sette siamo alla
base della parete. Ancora non si vede bene quindi per essere sicuri di non
sbagliare l'attacco beviamo il contenuto del thermos da 750cc. e con il
fornello sciogliamo della neve mentre aspettiamo la luce. Avevo ripetuto la via
diversi anni fa con Luca Leonardi (il gestore del rifugio Brentei) e suo figlio
Gabriele, però a dire il vero non ricordo gran ché. Marcello invece non l'ha
mai fatta.
Non abbiamo con noi materiale da bivacco quindi la nostra
strategia di salita prevede di essere rapidi, leggeri e audaci: le giornate sono
ancora corte.
Lasciate alla base racchette e uno zaino, la nostra
attrezzatura prevede: fornello e gas, liofilizzati per cena, barrette e
caramelle per la giornata, un thermos, guanti di ricambio, una serie di friends
e qualche stopper, dieci rinvii, cordini, secchiello e quattro ghiere, due
maniglie jumar, un paio di ramponi di alluminio, uno di acciaio, due piccozze,
un paio di scarpette, una vite da ghiaccio di alluminio, una mezza corda da 60
m, un procord da 4 mm da 60 m., uno zaino da 40lt.
Salire e salire (rapidi) |
Parto per primo e mi rilasso quando dopo pochi metri
troviamo la scritta in rosso “Via delle guide”. Per essere più rapidi abbiamo
deciso che il secondo sale a jumar con lo zaino, perlomeno sui tiri più
ripidi. Salgo cinque tiri, bestemmiando
a ogni passaggio con i piedi su piccole tacche perché abbiamo portato un paio
solo di scarpette, quelle di Marcello che sono un 44,5 e io ho il 42 di scarponi.
Se scalassi con le babbucce di Aladino avrei maggior sensibilità ma almeno non
serve che mi tolga le scarpe in sosta. Alla base delle placche nere più
verticali passa in testa Marcello.
Nella parte bassa della via c'è spesso della neve che però è
polvere e si toglie facilmente con le mani, le temperature sono di pochi gradi
sotto lo zero e si scala con un po' di freddo alle dita, con qualche “bollita”
ma sopportabile. Le placche nere e verticali sono quasi pulite e Marcello sale
veloce per sette tiri, facendo acrobazie per passare con le scarpette sulle
cenge completamente ghiacciate mentre io “sjumaro” come un indemoniato,
alternando grandi sudate a freddo mentre lo assicuro in sosta.
Una cima anche per noi. E pure una casetta! |
Alle 17 riusciamo per fortuna a superare la fascia ripida
della parete e a intravedere dove passare, mancano ancora circa trecento metri
alla cima. Una cascata di ghiaccio immette a un colatoio nero, quindi calzo i
ramponi e la scalo con le picche per portarmi sotto la parete terminale. In un attimo
è buio pesto e questo tiro di IV non sembra per nulla facile con i ramponi ai
piedi. Le soste non si trovano perché coperte dalla neve ma per fortuna qualche
chiodo di passaggio emerge dalle tenebre. Manca solo un altro tiro per uscire
sui pendii finali, è un traverso con un passo strapiombante dato di IV che a me
sembra un 7a! Ansimando riesco a raggiungere la cengia alla fine della corda e
attrezzo una sosta piantando la piccozza a mo’ di chiodo nell'unico scoglio di
roccia che emerge dalla neve. Marcello salendo a jumar ha il suo bel da fare
tra un pendolo e l'altro sul traverso, con la mezza da 8mm che sfrega pericolosamente
sulle rocce quando si lascia andare tra un rinvio e il successivo. Io nel
frattempo inganno il tempo guardando la piccozza flettersi ritmicamente e
puntandomi bene con i piedi nella neve. Quando mi raggiunge la luna fa capolino
da Molveno, è piena piena e illumina a giorno noi e il Crozzon. Si vedono le
luci di Andalo, il Campanil Basso stretto tra la Brenta Alta e il Campanile
Alto sembra vicinissimo e le piste del Grostè hanno stranamente un confortevole
richiamo al domestico che ci scalda.
Un facile pendio ci porta sotto la sorpresina finale, lungo un
tiro che sarebbe facilissimo d'estate si è formata una cascata con un tratto
verticale. Abbiamo messo via le jumar quindi la seconda piccozza ce l’ ha Marcello.
Fortunatamente un buon friend mi anima e salgo pinzando le
colonnine di ghiaccio con la mano sinistra, nella paura che provo mi viene da
ridere pensando a quando durante i corsi guida ci facevano fare esercizio
scalando con una piccozza sola su cascate belle ripide.
Il giorno dopo, la discesa |
Siamo belli cotti e andiamo piano, anche sugli ultimi facili
pendii restiamo legati e alle 21.30 finalmente ci abbracciamo in vetta! Il
bivacco Castiglioni sembra un hotel a cinque stelle, manca solo la jacuzzi. Il
giorno dopo verso le otto e mezza cominciamo la discesa, l'idea iniziale era di
traversare lungo la normale fino alla Tosa e poi scendere il canalone Neri ma
appena sotto la cima cambiamo idea. Scendiamo in doppia da “Lisa dagli occhi
blu”, una bellissima via di misto aperta da Parolari e Tondini che conta
parecchi tentativi e poche salite fino in vetta. Non la conosciamo ma con un
po' di pazienza troviamo gli ancoraggi e in qualche ora di faticoso recupero
del sagolino da 4 mm. arriviamo nella parte finale del canalone Neri, vicino agli
zaini e alle odiate ciaspe. Tutte le guide le odiano, è inutile nasconderlo.
Alla Malga Brenta Alta facciamo un'incursione “rubando” una
zuppa di fagioli e un buon caffè, abbandonati da qualche anima pia, e alla macchina, nel bagagliaio ci aspettano due
birre artigianali ghiacciate “Rethia” lasciate lì per un brindisi che ora non
si fa più aspettare.
Franz Salvaterra 27 gennaio 2016
Nel canalone Neri, quasi alla base. E poi a casa. |
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