Posto questo scritto delirante di qualche anno fa perchè molti credono erroneamente che l' improvvisazione sia sempre possibile...
Articolo già uscito su FREERIDE nel 2003.
Vero Freeride
Sulle alture di Genova la neve d’ inverno era una realtà, gli anni sessanta erano più freddi climaticamente, più caldi umanamente, ed alla leggerezza dell’ abbigliamento si sopperiva con un sano esercizio fisico… anche per noi gente di mare.
La marineria esiste da più di duemila anni, l’ alpinismo da poco più di due secoli, lo sci da ancora meno… pensateci.
Il “Pian dei Grilli” si raggiungeva comodamente in auto, con le catene, che non erano una faticaccia da mettere come oggi, non so perché.
Parcheggiata la Fiat 750, mio padre mi agganciò gli sci agli scarponi: cuoio, lacci, kandahar, lamine avvitate, l’ olimpionica nera a rombi, i guanti di lana, camicia e maglione, neve nei piedi… Lui gli sci non li aveva e mimò una posizione inesistente nella quale avrei dovuto mettermi se volevo sciare. Lo imitai alla perfezione e con tutti i muscoli cercai di mantenere la posizione fino a che ce l’ avessi fatta… Come se fossi una statua mio padre mi spinse sul ciglio
Me, mia sorella, nostro padre e la Fiat 750 nel 1966 |
Parcheggiata la Fiat 750, mio padre mi agganciò gli sci agli scarponi: cuoio, lacci, kandahar, lamine avvitate, l’ olimpionica nera a rombi, i guanti di lana, camicia e maglione, neve nei piedi… Lui gli sci non li aveva e mimò una posizione inesistente nella quale avrei dovuto mettermi se volevo sciare. Lo imitai alla perfezione e con tutti i muscoli cercai di mantenere la posizione fino a che ce l’ avessi fatta… Come se fossi una statua mio padre mi spinse sul ciglio
dove la pendenza mi risucchiò.
Il pendio terminò prima della mia energia, non male per la prima volta.
La neve era profonda e polverosa, il pendio sufficientemente ripido per avanzare, la mia voglia non si accorse di nulla e partiì.
Le gibbosità si susseguivano con ampi spazi tra gli alberi e servivano a mantenere la mia velocità né troppo alta né troppo bassa. Andavo che era una meraviglia.
Che bello!!! Non mi sarei più fermato, ma il pendio si esaurì in una conca tra faggi e castagni.
La mia prima discesa sugli sci per me durò una vita, il pendio era infinito, la neve leggera e profonda e ogni tanto me lo sogno ancora ma non con la nostalgia della giovinezza ma con quella della bellezza estetica di quel giorno. Avevo 4 anni e me lo ricordo!
se non è un veicolo freeride questo... |
Mio padre correva faticosamente sulla mia traccia affondando fino alla vita, era preoccupato di avermi perso dalla sua vista, o forse era solo meravigliato di non avermi visto cadere solo dopo pochi metri come si sarebbe convenuto ad un principiante.
Mio padre partì per l’ Africa e le mie giornate sulla neve vennero condotte da mio zio Giuseppe e mio cugino maggiore Marco.
Scesi dall’ auto, una NSU Prinz bianca come la neve, ogni pendio era buono. Mio zio in testa batteva la traccia in salita, mio cugino mi precedeva ed io affondavo nelle loro tracce perché le mie gambe erano molto più corte delle loro. Tutto bagnato arrivavo in cima e poi si scendeva, l’ ultima cosa di cui si parlava era di come si faceva a curvare, il fiato serviva per salire, a scendere ci pensava la forza di gravità.
Due discese al giorno erano già tante e gli esercizi più tecnici erano il dietro front e la scaletta.
A 9 anni ricordo che i miei Morotto erano lunghi 2 metri.
Il mio compagno di banco di allora era grasso, fifone e scansafatiche ma andavamo d’ accordo. Lui era per me a causa della sua poca prestanza fisica, un genio dei giochi anti-dinamici, come i soldatini, la pittura e la proiezione di film muti ottomillimetri sulla parete bianca della cucina.
Anche lui andava a sciare la domenica ed una volta mi invitò con la sua famiglia a Prato Nevoso.
Mi aveva raccontato che lui in un giorno faceva anche venti discese ed io volevo proprio vederlo…
Partenza alle sei, scarponi da sci già ai piedi.
Monte Pigna 1976 |
La Simca Mille arrancava sugli ultimi tornanti mentre il padre di Paolo ci svegliava con un “siamo arrivati” e di fronte a me si aprì un mondo sconosciuto.
Piloni colorati e cavi trainavano in cima a montagne altissime gli sciatori. Non si affondava nella neve perché era dura e si scendeva su una distesa di gobbe che si usavano per saltare e per girarvi sulla punta. In salita non si faticava ma in discesa si perché bisognava controllare la velocità altrimenti si cadeva. Cadevamo molto ed una volta ruppi persino gli sci in due, piantandomi contro una gobba di neve durissima !
Cercai di trascinare Paolo nella neve a me familiare, quella al di là dei pali che delimitavano la pista, ma lui mi osservava perplesso dal bordo mentre io filavo senza una curva a valle nella mia neve fonda. Lui se ne stava a guardarmi come protetto da quel percorso preparato e poi scendeva sulla pista arrivando prima di me in fondo.
Pensai due cose. Uno, che mai più sarei andato a faticare con mio zio e mio cugino, due, che con quelle macchine che ti trainavano fino in cima si poteva salire molte più volte e quindi divertirsi in discesa molto di più.
La pista non mi piaceva, ma la neve fresca si, quello era per me sciare e lo restò fino ad oggi.
I miei genitori mi regalarono una Vespa 125 Primavera che avevo ancora 15 anni e quindi non potevo guidarla. Avevo un autista con patente che mi portava in giro, lui ci metteva la sua perizia, io il mezzo, per la benzina facevamo a metà, lui la rubava con una gomma dall’ auto di suo padre, io da quella del mio.
A 16 anni presi la patente “A” così potei fare a meno dell’ autista. Contravvenendo alla legge che impone i 18 anni per portare un passeggero, per qualche domenica con un mio coetaneo ci imbarcammo in viaggi “freeride” in tutti i sensi.
Partenza con le tenebre da Genova. Io guidavo, Fulvio stava dietro. Il parabrezza lo toglievamo per avere più velocità, intanto l’ abbigliamento da sci, nel frattempo migliorato, pensavamo che ci avrebbe protetti dal freddo. Ci sbagliavamo.
Gli sci lunghissimi (eravamo ai 207 cm) stavano appoggiati alla mia spalla in verticale puntandosi con le code sul pavimento della Vespa sul lato opposto a quello del pedale del freno posteriore. Un laccetto di cuoio li teneva uniti e poi finiva nella mia bocca tra i denti per evitare che gli sci cadessero.
La riviera ligure sfilava alla nostra destra fino a Chiavari che raggiungevamo intorno all’ alba.
Il sole ci scaldava appena raggiunto il Passo della Ruta che scavalca il Monte di Portofino e noi imperterriti proseguivamo vestiti da sci!
Il mare alle spalle, l’ appennino gelido davanti a noi fino a S. Stefano d’ Aveto dove una cestovia portava in cima al Monte Bue.
Non avevamo mai i soldi per una bibita calda perché eravamo sempre senza soldi, ma eravamo maestri nell’ arte di arrangiarci e quindi avevamo un thermos da litro con il the caldo, dei panini gelati e qualche arancia che spesso dovevamo scaldare sotto il maglione prima di poterle addentare.
Ogni viaggio di questi era vera avventura. Una volta era così freddo che ci fermammo e ci mettemmo a fare piegamenti sulle gambe ed altri movimenti per scaldarci e Fulvio strinse la marmitta rovente tra i guanti che quando riuscì a trasmettere il suo calore alle mani gelate, i guanti erano già poltiglia. Sciò con dei calzettoni di lana cotta a mo’ di guanti con cui non gli riusciva di impugnare i bastoncini. Scendeva nel bosco tenendosi agli alberi facendovi perno per girare.
Facemmo anche una gara a chi saliva più in alto su un grande albero con gli sci ai piedi.
Credo che Fulvio riuscì a lanciarsi da un ramo elasticissimo “tipo trampolino”, da un’ altezza non inferiore ai 10 metri. La neve soffice attutiva la caduta.
Ricordo anche che tutte le volte che arrivavamo in cima al Monte Bue c’ era la nebbia e non si vedeva nulla, tranne una volta in cui sbucammo sopra le nuvole e ci parve di vedere il mare, che in effetti non era lontano.
Per pranzo ci appartavamo nel bosco e facevamo un fuoco attorno al quale consumavamo i nostri panini ed arrostivamo qualche wurstel. Era tutto selvatico, noi, lo spirito, il posto ed i propositi delle nostre gite sulla neve. Raramente ci seguivano delle ragazze ma ogni tanto qualcuna veniva.
Una certa Daniela ci fece un regalo rubando varie cioccolate da un negozio di un paesino lungo la strada. Lei non sciava, ma faceva lo stesso la gita viaggiando sulla Fiat 600 guidata da un altro non-sciatore, il mitico Simoncini!
Il nostro gruppo di amici si componeva di sciatori e di “sostenitori” ovvero persone a cui faceva piacere essere lì e basta.
C’ erano Bonetti, Libero, Demarchi, Baccini, Sandro, Sciscio, Fulvio, Biazzo, Bolsce, Cento, Zanni, Ottaviani, Liana, Mariagrazia, Chicca, Nebbia, Facciadiporco, Paola, Cristina, Susi, Alba, Anna e…. molti che non ricordo. Alcuni facevano parte del gruppo musicale Style Idea.
La Fiat 600 era stata un regalo della madre di una nostra amica che l’ aveva abbandonata nel giardino di casa e dove delle api giganti avevano fatto il loro nido.
La sua conquista e bonifica erano state ardue perché le api non mollavano, ma a noi un’ automobile faceva troppo comodo per lasciarle lì.
Con la compassione di un demolitore di auto recuperammo i pezzi mancanti, che ce li regalò, e dopo qualche giorno la “tradotta” era marciante.
La Tradotta era il treno che portava in guerra i soldati al fronte, c’ è anche una canzone. Era bello poter utilizzare un nome tanto drammatico per le nostre scorribande sicuramente pacifiche.
Freddo, fatica, viaggio, pericoli e avventura erano in comune con l’ epico convoglio bellico, a noi non sparava nessuno per fortuna, ma da qualcuno sicuramente dovevamo stare attenti a non farci beccare…
I 4 posti si potevano ampliare fino ad una dozzina. Vi spiego come.
La tradotta partiva nottetempo con Simoncini alla guida, lo accompagnava qualche volta una ragazza, carica di tutti gli sci, scarponi, vettovaglie e quant’ altro per Artesina.
Noi, gli sciatori, prendevamo il treno fino a Mondovì cercando di non pagare il biglietto perché i soldi servivano per la benzina della tradotta. Ognuno pensava a sé.
Nel frattempo Simoncini aveva scaricato vicino alle piste tutto il carico ed aveva convinto qualcuno a sorvegliarlo al gelo. Con l’ auto vuota scendeva fino a Mondovì dove noi eravamo arrivati in treno e facendo due-tre viaggi ci portava tutti a destinazione.
Scattava ora l’ operazione ski-pass falsi. Ci si portava con aria distaccata nelle vicinanze della Cassa per scoprire di che colore era il cordoncino di spago e scopertolo si estraevano di nascosto da una scatola contenente decine di cordoncini di vari colori, le tessere giornaliere. Ne avevamo anche di settimanali e quindicinali con foto, ovviamente intercambiabile. Cancellando con la scolorina la data dei vecchi skipass vi si timbrava quella del giorno necessario con timbro ed inchiostro (altro che scanner) e dopo qualche minuto si era pronti a partire.
Gli skiliffisti intontiti dal freddo e dal vino avevano altro a cui pensare ed i controlli delle tessere venivano fatti sommariamente. Comunque le nostre falsificazioni erano fatte tanto bene che difficilmente se ne sarebbero accorti.
Il ritorno avveniva alla stessa maniera, gli ultimi arrivavano a casa intorno alla mezzanotte, erano giornate piene!
Oggi, con la mia "beniamina" freerider Arianna Tricomi 3 volte freeride world champion! |