sabato 30 gennaio 2016

CROZZON di BRENTA, Via delle Guide, seconda invernale, o: in invernale, o: d'inverno.

Mentre ascolto "Before you accuse me" di Eric Clapton in modalità "loop"  nel mio vecchio stereo, in questa stagione avara di neve e di lavoro (cazzo, faccio la guida!) in cui ho insolitamente un sacco di tempo, penso che in ogni situazione vada trovata una condizione positiva. 
Così qualche giorno fa con il mio "socio" Franz Salvaterra ce ne siamo andati sul Crozzon di Brenta a ripetere la Via delle Guide.
C'abbiamo messo un giorno, mentre i nostri predecessori ce ne avevano messi 8. 
Certo, nel 1969 c'era molta più neve, più freddo e tutte quelle cose lì. Loro partivano non appena la fabbrica gli lasciava il tempo e la motivazione che li spingeva a fare per la prima volta una cosa tanto notevole non era di certo la nostra di fancazzisti con tanto tempo a disposizione.
Il versante settentrionale del Crozzon di Brenta
Ma voglio spezzare una lancia anche a nostro misero favore: ce l'abbiamo messa tutta per correre e non farci sorprendere da un bivacco indesiderato e per farlo abbiamo riposto nell'altro il massimo della fiducia. Non è una cosa da poco, secondo me, perché sapevamo che non ci saremmo fermati finché non sarebbe apparsa la cima, anche se fosse diventato buio. E così è stato ed è stata una bella sensazione, quella di essere una macchina quasi perfetta, lanciata nella concentrazione e nello stupore di vedere alba, giorno, tramonto e notte con la coda dell'occhio, mentre davanti scorrevano appigli bellissimi! Le mani gelate, le bollite alle dita, i piedi induriti nelle scarpette due numeri più grandi e la sete sono nulla in confronto alla felicità.

Tornando alla canzone di Clapton: è un po' la stessa cosa, se ci pensate, MI7-LA-SI-MI7/SI, un giro di blues che più semplice non si può. Eppure io su quel giro di accordi sono stato in grado tutt'al più di ricavarci "Gabibbo Blues" (ah, ah, ah) mentre il vecchio Slowhand c'ha tirato fuori Before you accuse me. Ascoltatela se non la conoscete (godevela!)  e perdonatemi il parallelismo tra musica e alpinismo ma sono due caratteristiche costanti della mia esistenza da cui fortunatamente non posso sottrarmi.


Lascio al mio compagno d'avventura (è il nome giusto) la descrizione, che solo chi avrà curiosità e insonnia potrà leggere.


Ho appena finito di rileggere il racconto di Gianni Rusconi dal libro “Il grande alpinismo invernale”, sulla prima invernale, appunto, alla Via delle Guide sulla nordest del Crozzon di Brenta.
A dire il vero avrei voluto leggerlo prima di partire per il Crozzon, ma nel disordine di casa mia non trovavo il libro, forse sepolto sotto l’attrezzatura che con Marcello (Cominetti, con cui intendevo partire per questa gita)  stavamo frettolosamente preparando. Quindi ora me lo sono goduto di fronte al caminetto a salita compiuta.
Cala la notte, i giorni di gennaio sono cortissimi...
Se devo essere onesto la loro salita invernale  è stata veramente una grande impresa e un'avventura che li ha spinti al limite delle forze, la nostra al paragone è stata una cosa molto meno sofferta e affascinante, pur avendoci regalato momenti indimenticabili legati sicuramente al fascino dell’inverno che restituisce alla montagna la sua staticità assoluta.
A distanza di quasi 50 anni, stride il confronto tra la spedizione “pesante” dei Rusconi e compagni, se raffrontata alla nostra: leggerissima e quasi spensierata, ma non troppo.
Sicuramente noi l’abbiamo affrontata perché le condizioni meteo erano quelle più favorevoli: poca neve in parete, tempo stabile e temperature non estremamente basse. Noi avevamo dalla nostra la possibilità di  partire al momento giusto e la facilità nel metterci d’accordo, essendo solo in due e facendo lo stesso lavoro: le guide disoccupate.
Franz alle jumar
Ma veniamo alla cronaca.
Roberto Chiappa, Gianluigi Lanfranchi (detto Pomela), Antonio Rusconi e Giovanni Rusconi attaccano la grande parete nordest del Crozzon il 7 marzo 1969. E' tutto l'inverno che fanno avanti e indietro da Lecco assediando questa via, nel tentativo più serio partecipano anche Alessandro Gogna con Leo Cerruti, riescono ad arrivare fino alla grande cengia alla base delle placche nere, la parte tecnicamente di grado più elevato. C’è da dire che le difficoltà maggiori si incontrano sui tiri di quarto grado, dove la neve si deposita sugli appigli e nasconde gli appoggi, i pochi chiodi e su cui non sempre è facile decidere se progredire con gli scarponi, se mettere  i ramponi o addirittura le scarpette.
Sulla fascia nera
Per ben 6 giorni (5 bivacchi) i lecchesi combattono con diedri e placche intasate di neve, il termometro talvolta segna -30 gradi, e mi sembra un po’ strano, però.... Non hanno le maniglie jumar e risalgono le corde con i nodi prusik, appesa alle imbragature artigianali insieme ai chiodi da roccia portano una spazzola per pulire la neve dagli appigli! Verso la cima gli cade una sacca con i viveri e si ritrovano in vetta, per fortuna nel ventre materno del bivacco Castiglioni con poco cibo e nel mezzo di una tempesta. Essere lassù in quella scatola di latta è sicuro quanto ritrovarsi in mezzo al mare grosso con una barchetta. Si sopravvive ma bisogna assolutamente togliersi da lì!
Il giorno dopo, tra vento e slavine, impiegano tutte le ore di luce  per traversare dalla vetta del Crozzon a quella della Tosa. Infatti la discesa non è banale neppure d’estate. Qui fanno il settimo bivacco in un buco nella neve, sono allo stremo delle forze, immaginate, senza sacchi da bivacco in Goretex, con le moffole di lana e le giacche di cotone!
Negli ultimi momenti Gianni preso dallo sconforto pensa alla frase di Pierre Mazeaud dopo la tragedia del Freney del 61': “ Il dramma è iniziato e non ce ne siamo accorti”.
Franz laggiù
L'ottavo giorno dopo aver disceso i camini della Cima Tosa abbandonano tutto il materiale, scendono passando nelle vicinanze  del rifugio Pedrotti e, praticamente rotolandosi nella neve, arrivano a Molveno lungo la valle delle Seghe, finalmente in salvo.

Franz lassù

La “nostra” invernale è fortunatamente molto meno sofferta: il 24 gennaio saliamo al rifugio Brentei dalla val Brenta, partiamo da casa mia a Tione dopo un ottimo pranzo e arriviamo al rifugio alle ultime luci. Fino a poco sotto la Malga Brenta Alta praticamente non c'è neve, poi mettiamo le ciaspe.  Anche le temperature sono dalla nostra, fino a un paio di giorni fa a Campiglio la temperatura è scesa fino a -18, ora si è alzata di almeno 10 gradi. La mattina del 25 la sveglia suona  alle tre e mezza. Prima delle sette siamo alla base della parete. Ancora non si vede bene quindi per essere sicuri di non sbagliare l'attacco beviamo il contenuto del thermos da 750cc. e con il fornello sciogliamo della neve mentre aspettiamo la luce. Avevo ripetuto la via diversi anni fa con Luca Leonardi (il gestore del rifugio Brentei) e suo figlio Gabriele, però a dire il vero non ricordo gran ché. Marcello invece non l'ha mai fatta.
Non abbiamo con noi materiale da bivacco quindi la nostra strategia di salita prevede di essere  rapidi, leggeri e audaci: le giornate sono ancora corte.
Lasciate alla base racchette e uno zaino, la nostra attrezzatura prevede: fornello e gas, liofilizzati per cena, barrette e caramelle per la giornata, un thermos, guanti di ricambio, una serie di friends e qualche stopper, dieci rinvii, cordini, secchiello e quattro ghiere, due maniglie jumar, un paio di ramponi di alluminio, uno di acciaio, due piccozze, un paio di scarpette, una vite da ghiaccio di alluminio, una mezza corda da 60 m, un procord da 4 mm da 60 m., uno zaino da 40lt.
Salire e salire (rapidi)
Parto per primo e mi rilasso quando dopo pochi metri troviamo la scritta in rosso “Via delle guide”. Per essere più rapidi abbiamo deciso che il secondo sale a jumar con lo zaino, perlomeno sui tiri più ripidi.  Salgo cinque tiri, bestemmiando a ogni passaggio con i piedi su piccole tacche perché abbiamo portato un paio solo di scarpette, quelle di Marcello che sono un 44,5 e io ho il 42 di scarponi. Se scalassi con le babbucce di Aladino avrei maggior sensibilità ma almeno non serve che mi tolga le scarpe in sosta. Alla base delle placche nere più verticali passa in testa Marcello.
Nella parte bassa della via c'è spesso della neve che però è polvere e si toglie facilmente con le mani, le temperature sono di pochi gradi sotto lo zero e si scala con un po' di freddo alle dita, con qualche “bollita” ma sopportabile. Le placche nere e verticali sono quasi pulite e Marcello sale veloce per sette tiri, facendo acrobazie per passare con le scarpette sulle cenge completamente ghiacciate mentre io “sjumaro” come un indemoniato, alternando grandi sudate a freddo mentre lo assicuro in sosta.
Una cima anche per noi. E pure una casetta!
Alle 17 riusciamo per fortuna a superare la fascia ripida della parete e a intravedere dove passare, mancano ancora circa trecento metri alla cima. Una cascata di ghiaccio immette a un colatoio nero, quindi calzo i ramponi e la scalo con le picche per portarmi sotto la parete terminale. In un attimo è buio pesto e questo tiro di IV non sembra per nulla facile con i ramponi ai piedi. Le soste non si trovano perché coperte dalla neve ma per fortuna qualche chiodo di passaggio emerge dalle tenebre. Manca solo un altro tiro per uscire sui pendii finali, è un traverso con un passo strapiombante dato di IV che a me sembra un 7a! Ansimando riesco a raggiungere la cengia alla fine della corda e attrezzo una sosta piantando la piccozza a mo’ di chiodo nell'unico scoglio di roccia che emerge dalla neve. Marcello salendo a jumar ha il suo bel da fare tra un pendolo e l'altro sul traverso, con la mezza da 8mm che sfrega pericolosamente sulle rocce quando si lascia andare tra un rinvio e il successivo. Io nel frattempo inganno il tempo guardando la piccozza flettersi ritmicamente e puntandomi bene con i piedi nella neve. Quando mi raggiunge la luna fa capolino da Molveno, è piena piena e illumina a giorno noi e il Crozzon. Si vedono le luci di Andalo, il Campanil Basso stretto tra la Brenta Alta e il Campanile Alto sembra vicinissimo e le piste del Grostè hanno stranamente un confortevole richiamo al domestico che ci scalda. 
Un facile pendio ci porta sotto la sorpresina finale, lungo un tiro che sarebbe facilissimo d'estate si è formata una cascata con un tratto verticale. Abbiamo messo via le jumar quindi la seconda piccozza ce l’ ha Marcello.
Fortunatamente un buon friend mi anima e salgo pinzando le colonnine di ghiaccio con la mano sinistra, nella paura che provo mi viene da ridere pensando a quando durante i corsi guida ci facevano fare esercizio scalando con una piccozza sola su cascate belle ripide.
Il giorno dopo, la discesa
Siamo belli cotti e andiamo piano, anche sugli ultimi facili pendii restiamo legati e alle 21.30 finalmente ci abbracciamo in vetta! Il bivacco Castiglioni sembra un hotel a cinque stelle, manca solo la jacuzzi. Il giorno dopo verso le otto e mezza cominciamo la discesa, l'idea iniziale era di traversare lungo la normale fino alla Tosa e poi scendere il canalone Neri ma appena sotto la cima cambiamo idea. Scendiamo in doppia da “Lisa dagli occhi blu”, una bellissima via di misto aperta da Parolari e Tondini che conta parecchi tentativi e poche salite fino in vetta. Non la conosciamo ma con un po' di pazienza troviamo gli ancoraggi e in qualche ora di faticoso recupero del sagolino da 4 mm. arriviamo nella parte finale del canalone Neri, vicino agli zaini e alle odiate ciaspe. Tutte le guide le odiano, è inutile nasconderlo.

Alla Malga Brenta Alta facciamo un'incursione “rubando” una zuppa di fagioli e un buon caffè, abbandonati da qualche anima pia, e alla  macchina, nel bagagliaio ci aspettano due birre artigianali ghiacciate “Rethia” lasciate lì per un brindisi che ora non si fa più aspettare.

Franz Salvaterra 27 gennaio 2016

Nel canalone Neri, quasi alla base. E poi a casa.


GRAZIE, tra gli altri nostri sponsor, a www.inpatagonia.it


venerdì 15 gennaio 2016

GENOVA PER VOI una cascata ghiacciata del 2005...

Antersass par. S-E. Al centro: Genova per Voi
Nel 2005 in una fredda giornata di gennaio con Giorgio Rosasco siamo partiti da Corvara sci a i piedi per il Passo Pordoi. Con gli impianti di risalita. Qualche pista tra Porta Vescovo e Arabba, un quarto d'ora di traccia innevata a piedi e poi giù per la Val Mesdì.
Appena finito il tratto iniziale, quando la valle si apre tra le pareti dell'Antersass e il Piz Boè,, poco prima del Canalone del Ghiacciaio, sulla sinistra c'è lei.

Avevo già notato questa sottile linea ghiacciata che si formava di rado, mentre accompagnavo gli sciatori nella Val Mesdì, ma quando fai la guida con ai piedi gli sci, sembra che tutti abbiano fretta di scendere e quindi avevo osservato la cascata di sfuggita. Ma l'avevo vista!
Così con Giorgio quella volta ci siamo organizzati per andare a vedere cosa ci avrebbe riservato.
E' stata la volta che in tanti anni l'ho vista così ben formata, nel 2005 appunto.
La salita è stata molto bella e divertente. 
Una volta scesi alla base ci siamo dovuti rimettere gli scarponi da sci e Giorgio aveva un paio di Lange da gara che il freddo aveva indurito come cemento. Infilarseli gli aveva richiesto non poco tempo e molto non ne avevamo perché Giorgio doveva rientrare al lavoro a Corvara nel primo pomeriggio.
Arrivammo giusto in tempo, fu una giornata da ricordare.
G.Rosasco nel 2006 durante il trek Selvaggio Blu

Chiamammo la cascata "Genova per Voi" parafrasando una canzone di Paolo Conte e perché io e Giorgio siamo nati entrambi nella Superba qualche annetto fa.
La "consacrazione" della nostra salita arrivò quando il mio collega valtellinese Mario Sartori scrisse per Versante Sud la guida di cascate con le 600 più belle salite delle Alpi: ALPINE ICE. Non ricordo come seppe della nostra salita, ma mi chiamò per avere delle informazioni che gli mandai volentieri. Spero che qualcuno l'abbia ripetuta perché ne vale senz'altro la pena!

Dati Tecnici: 100m. di ghiaccio, III5+M6. Discesa su abalakov. Oppure 80m. di 4°+ fino in vetta all'Antersass per poi scendere a piedi passando dal Rif. Boè.

sabato 9 gennaio 2016

Back from PATAGONIA and Happy new Year 2016

Ai piedi del Cerro Piergiorgio
Ora che sono a casa col fuoco che scoppietta nella stufa, come ogni volta, penso che avrei potuto prolungare la mia permanenza a El Chaltén per fare qualche salita in più. E' la stessa sensazione da ormai quasi trent'anni, dalla prima volta in cui sono stato a scalare alla Fin del Mundo.
Questa volta con Franz Salvaterra, Luca Bianco e Giacomo Deiana siamo perfino riusciti a mettere piede su una cima ancora inviolata. Un dente di pescecane tra il Cerro Torre e il Cordon Marconi: il COLMILLO SUR!


Ancora una cima inviolata in Patagonia: 
Da sin. Colmillo Sur, Central e Norte
Un "riproduttore" umano di emozioni ancora valide

Lo scoglio che preme contro le mie vertebre lombari attraverso il materassino non avrà la meglio sul mio sonno perché la sveglia sta già suonando. 
Franz al mio fianco ha da poco smesso di cercare una posizione da dormita avvitandosi nel sacco a pelo come una punta da trapano. Sono le due e mezza. Siamo accampati con i nostri amici Luca e Giacomo sulle ghiaie de la Plajita, la spiaggetta. In verità i diminutivi sono una mania argentina perché questa spiaggia del lago Electrico é enorme come tutto ciò che ci circonda. Le montagne soprattutto, che occhieggiano tra le nubi e la luna di una notte incerta nel sonno, nei propositi e nel meteo. Ci siamo stufati di consultare bollettini e meteogrammi, quindi Franz ha trovato un sito che annunciava tempo buono e con quella previsione siamo partiti. E infatti gli spazi tra le nuvole sono consistenti a sufficenza per farci partire carichi di materiale e entusiasmo in dose giusta ma non esagerata.
La diagonale da sx a dx è la ns. via

Per noi è già giorno, ma è buio come asfalto fresco, perché la luna è già nello stomaco di qualche vaporoso cumulo carico di umidità spessa. Prendiamo a calci la morena che attraversiamo a passo di carica, come se fossimo bersaglieri ipovedenti. Le tende lasciate montate sulla plajita speriamo di ritrovarle al nostro ritorno ben ancorate agli scogli, perché sappiamo bene che del vento patagonico non ci si può fidare mai. Eppure insistiamo a spendere energie maledicendoci costantemente perché questa è la nostra passione. Non ci possiamo fare niente!
Sono le sensazioni che qui racconto perché i dati tecnici di una salita incerta e dall'esito sconosciuto sono "fuffa" e li raccontano tutti allo stesso modo annoiando terribilmente. Noi vorremmo fare divertire il lettore con un po' di leggerezza di spirito. 
Franz assicura Luca che esce in cima
A proposito, Giacomo dev'essere il primo sardo a fare queste cose qui. È di Sassari e scala su roccia in maniera disinvolta e qui in Patagonia è già stato lo scorso anno e ha capito a che gioco si gioca, tanto da ritornarci. I ramponi e le picche che porta nello zaino sono strumenti nuovi per lui. Li userà tra poco per la prima volta. E non stiamo andando a fare una passeggiata, anche se camminiamo da più di quattro ore quando dobbiamo indossare questi attrezzi appuntiti perché il ghiacciaio si fa più ripido, i crepacci più cattivi e la sagoma del Cerro Piergiorgio sembra caderci in testa dalla nostra sinistra. Seracchi piombano rombanti su ogni lato della valle, per fortuna nostra abbastanza larga da lasciarci ancora sonnecchiare e sopravvivere mentre risaliamo veloci verso la base della parete che è ancora vergine, come la cima, del Colmillo Sur
In sosta a la Brecha de los Sardos

Colmillo è un nome inventato da Rolo Garibotti per nominare tre cime appuntite che doveva descrivere nella sua bella guida Patagonia Vertical. Significa "dente canino", nome abbastanza appropriato alla forma di queste belle torri. Il Colmillo central è stato salito la prima volta da Franz e compagni un mese fa, il Norte da Hervè Barmasse e compagni nell'inverno di due anni fa, e il Sur ha rischiato di farsi sverginare da Franz e Jacopo Pellizzari qualche settimana fa perché hanno tentato una via diretta sulla liscia parete Sud per ora finita nella bufera, ma torneranno.
La cima non sembra concedersi tanto facilmente perché ha sopra uno di quei dannati funghi di ghiaccio strapiombanti da ogni lato, tipici delle vette che si affacciano sullo Hielo Continental Sur, la fabbrica delle perturbazioni delle Ande Patagoniche Australi. 
Noi saliamo da est, al sole incerto del mattino di oggi, che le nuvole stanno già inglobando nel loro abbraccio grigio e ventoso.
Il tempo peggiora, i Colmillos sullo sfondo
Il sole non ci tocca ma per i primi 4 tiri di corda almeno il vento ci risparmia perché soffiando da ovest ci può solo aspettare al colle che divide i due Colmillos, il nostro dal Central. Battezziamo questa forcella Brecha de los Sardos in onore al nostro coraggioso compagno Giacomo da Sassari, che ha già acquisito la destrezza necessaria con gli strumenti appuntiti che ha a mani e piedi. Bon così! Alla Brecha il vento soffia tanto improvviso che ti viene da dire "chiudi quella cazzo di porta!" , ma invece ce lo porteremo dietro, e di lato, fino in vetta.

La parete è quasi verticale ed é totalmente ricoperta di brina e neve ghiacciate, un fenomeno unico nel suo genere che condito dal vento sa davvero di Patagonia. Si chiama Escarcha. 
Luca Bianco (in tutti i sensi)

Bisogna tirare stretto il cordino del cappuccio e cercare di stare fermi il meno possibile. Le lunghezze di corda scorrono rapide nonostante le difficoltà non siano banali. Fino all'M5+ secondo tutti noi, Giacomo compreso, che ha capito immediatamente come funziona la scala del misto e soprattutto come ci si arrampica sopra! 
Ci chiede solo per favore di non dirgli che era facile e noi lo accontentiamo e ci facciamo delle sane risate su, mentre la neve ci entra nel collo e nei polsi. Eppure avevamo stretto tutti i cordini possibili. Nell'ultimo tiro Franz innesta sulle becche delle piccozze le alette in lega leggerissima appena realizzate dal suo sponsor Climbing Technology, che funzionano a meraviglia. In realtà il progetto è una derivazione migliorata di un'aletta concepita lo scorso anno assieme al nostro amico fabbro chaltenense Guido Grando, un artista dalle mani d'oro.
La parte superiore della via con il tracciato

I passaggi non sono banali e mentre assicuro Franz uno strattone mi fa perdere l'equilibrio facendomi piegare su me stesso per non precipitare di lato. Ero assicurato ovviamente ma se tieni le corde con le mani e cadi, una facciata non te la leva nessuno, ma non é successo. Franz urla nella tempesta che è caduto, se non ce ne fossimo accorti, ma che non si è fatto niente, precisandolo immediatamente. Ridiamo in sosta e penso che questo ragazzo è un genio! Perché ha sempre sotto controllo tutti gli aspetti che servono a tenere il morale costantemente alto. Nelle stesse condizioni con altre persone meno positive si potrebbe definire la situazione drammatica o estrema, come va di moda tra gli incompetenti, ma invece lo spirito che per fortuna abbiamo ci tiene allegri e pure caldi, nel gelo, sapendo che le nostre forze fisiche e morali ci riporteranno al sicuro. 
Nel nostro "chalet svizzero" a El Chaltén
Avere questa certezza sempre dentro di sé, contando sui compagni giusti, è meglio di qualsiasi polizza assicurativa ed è pure gratis! Questa la considero un poderoso pilastro dell'essenza dell'alpinismo, perché ti aiuta molto nel riportare la pelle a casa, mica roba da poco!
Le picche alate si ancorano alla perfezione lungo il mezzo tubo che Franz ha trovato sotto la cima e la vetta arriva da sola, inaspettata perché la visibilità è zero meno. 
La Sardegna in vetta sul casco di Giacomo
Siamo caldi ora ma sappiamo che il freddo tra poco ci entrerà nelle ossa perché scendendo in doppia non si fa fatica ma facciamo a gara a recuperare le corde, unico esercizio fisico possibile adatto a scaldarci. Così siamo anche rapidi frenando la forza di gravità ma non troppo. Dopo la Brecha de los Sardos sembra di entrare in casa. Il vento cessa all'improvviso come se la porta aperta per sbaglio qualche ora prima si sia richiusa alle nostre spalle. E forse è davvero così.
Dalla cima la vista sarebbe stata di quelle esteticamente memorabili ma nessuno di noi lo dice né credo che lo pensi. Non siamo saliti lassù per il "vedere lontano" di bonattiana memoria. Non siamo conquistatori ma semmai apprezzatori di momenti che durano da quando ci svegliamo a quando stremati ci ributtiamo nel sacco a pelo posato sempre su terreni scomodi. Non sono condizioni che cerchiamo volontariamente ma sono quelle che inevitabilmente troviamo ogni volta, perché per la passione si è disposti a soffrire godendone. Alla faccia di chi non capirà mai.
Arrivati alla base nevischia e soffia aria fresca in ogni direzione. É l'effetto rotore della corrente occidentale che predomina. Nell'acqua e anice di una canzone di Paolo Conte che descrive la nebbia padana, ci infiliamo nel dedalo di crepacci da scendere con brevi calate e da risalire con docili picozzate sul lato opposto. Il rewind di quello fatto stamattina, solo che siamo un po' più stanchi. Teniamo premuto il tasto "play" perché la strada è ancora lunga e accidentata. Ghiacciaio Piergiorgio, Marconi, lago Marconi, colle dei muri, cascatella e...spiaggetta-plajita, sembrano luoghi ameni ma piove orizzontale. Diventa buio e il tasto play vorrebbe scattare verso l'alto, in posizione stop, come in un ormai vecchio mangiacassette. Ma lo teniamo premuto fino a ritrovare le tende inzuppate e con il telo ammollato dalla pioggia di tutto il giorno. Dopo che la zip è scorsa prima avanti e poi indietro possiamo premere NOI il tasto Stop e stavolta lo scoglio che mi preme sulle vertebre lombari mi aiuta a russare.
discesa tra i Colmillos

Grazie a PATAGONIA, SCARPA, SALICE e FERRINO

martedì 17 novembre 2015

Ogni mattina

Ogni mattina che accompagno a scuola mia figlia ci godiamo l'alba sulle Dolomiti dalla macchina. Lei, che è nata qui, non ci trova nulla di straordinario, ma io che sono nato in città si. Anche dopo oltre 30 anni che vivo tra questi strani monti appuntiti e ripidi.
Pelmo e Civetta dalla strada di La Court (casa)


Salendo Passo Campolongo, Piz Boè (Sella)

Ciampac e Sassongher (Corvara)

La Villa, pista Gran Risa, tutto pronto (anche le luci!) ma manca un dettaglio:la neve!

lunedì 2 novembre 2015

Serata a Genova con lo scrittore Enrico Camanni il 27 novembre

 Con l'alto patrocinio di ottimi vini eroici!

giovedì 29 ottobre 2015

UNA STORIA DELL'ALPINISMO, un libro coraggioso di Gianni Pastine (ed. Liberodiscrivere)

Visto che si tratta di una pubblicazione molto sobria, passerà certamente meno osservata di quanto meriterebbe, ma questo libro è una perla.
Non è esente da difetti ma è l'unico nel suo genere che ha avuto il coraggio di raccontare fatti storici analizzandone motivi inediti.

Personaggi intoccabili come Bonatti non ne escono tanto bene (è solo l'esempio più eclatante, ma non certo l'unico) e questo la dice lunga sul coraggio e l'intelligenza sottile dell'autore, che ho la fortuna di conoscere bene di persona.
Giovanni Pastine ha attraversato fisicamente un settantennio di alpinismo e, come scrive, in questo bel libro, "ci fu un epoca in cui ci conoscevamo tutti" e non sorprende quando discute (in francese anche nel libro) con Rebuffat o Terray o si disseta al Breuil con Carrel scambiandosi battute in patois.
Sono rimasto a bocca aperta e l'ho letto due volte di seguito. 
Certo che l'autore indugia su fatti a livello locale che riguardano i luoghi che meglio conosce, ma se tra questi ci sono tutte le Alpi occidentali (dalle Liguri in su!) e le Dolomiti, direi che ce n'é per togliersi più di una soddisfazione sia a livello storico che letterario.
Finisce in maniera solennemente e positivamente lapidaria.
E' un libro che dovrebbe stare nella biblioteca di ogni alpinista, senza distinzioni di livello tecnico e di passione e/o frequentazione.
Se avete letto Tempo per Respirare di Reinhard Karl e ogni tanto lo riprendete dalla libreria per leggerne qualche passo stando in piedi e commuovendovi ogni volta come se fosse la prima, prima di riporlo al suo posto, ecco, Una Storia dell'Alpinismo potrebbe trovare posto su quello stesso scaffale.
G.Pastine (foto di Egidio Nicora)

Ho scritto la mia storia dell'alpinismo con l'intento di inserirla in quella più generale, troppo sovente trattata in maniera retorica, storia alpinistica compresa.
L'alpinismo, attività elitaria per eccellenza, è parte inscindibile della storia dell'umanità. Esso non è praticato solo a livello di elevata difficoltà tecniche e ambientali come non è praticato solo alle massime altitudini. È un'attività che si svolge, anche e più frequentemente, su altitudini e difficoltà modeste, là dove si evidenzia la maggiore frequenza. Non può quindi essere separato da ogni altra manifestazione della vita, passata come più recente. G.Pastine.









lunedì 19 ottobre 2015

ERRI DE LUCA ASSOLTO. Le ingiustizie vanno sabotate, sempre!

Oggi 19 ottobre 2015 lo scrittore Erri De Luca, imputato per avere criticato il TAV definendola un'opera che andava sabotata, è stato assolto per non aver compiuto il reato penale di istigazione a compiere atti criminali.
E' una vittoria di tutti noi e della libertà di parola.
Qui la notizia e il VIDEO dell'inizio del processo. 
Erri è un amico e un arrampicatore e saperlo libero da quest'ingiusta accusa è per me un giorno di festa.
E pure io sono convinto che il TAV in Val di Susa non serva a niente.
Erri De Luca e Marcello Cominetti a Corvara

mercoledì 23 settembre 2015

LEGGENDE QUASI METROPOLITANE PARTE 2^

Patagonia, orizzonti vasti e scarpe basse
"Mi dia pure quelle che bloccano la caviglia che mi danno più sicurezza"

No, per favore, le scarpe alte sopra la caviglia per camminare sui sentieri, no, per favore no!
I portatori himalayani si fanno un culo mostruoso. Vivono portando sulla schiena per ore dei pesi che noi neppure riusciamo a sollevare. Come faranno?
Mi è capitato spesso, prima di partire per un trekking o una spedizione, di equipaggiare adeguatamente i portatori. Non è solo uno scrupolo morale ma lo prevede anche una legge locale. I portatori sono scalzi o tutt’al più hanno le infradito. Noi gli diamo delle scarpe da trekking, di quelle che la maggior parte della gente che cammina sui sentieri usa qui.
Loro ringraziano, le accettano e pochi minuti dopo le hanno vendute al negozio del villaggio dove si riforniscono i turisti.
Annapurna Himal,galline in gabbia di ferro
Non c’è verso di fargliele usare e già dopo la prima volta mi sono spiegato il perché.
Hanno paura di cadere perché quelle scarpe, che noi (io no) usiamo comunemente sui sentieri impediscono alla caviglia di articolarsi adeguatamente per adattarsi alle asperità del terreno, garantendo il necessario equilibrio.
Diversamente accade se gli si danno delle scarpe cosiddette “basse”, meglio se leggere, quelle che noi chiamiamo “da ginnastica”. Loro con quelle scarpe da ginnastica ci salgono le montagne portando sulla schiena 30 kg!
Anche io cammino con le scarpe basse e mai mi sognerei di usarne di alte sopra la caviglia, tantomeno se rigide, a meno che non ci sia la neve o il ghiaccio. Ma quelli si chiamano e sono: scarponi.
Ogni paese ha la sua cultura in fatto di scarpe. Per esempio negli USA gli escursionisti usano scarpe basse anche se sono malfermi e alle prime armi. Nella loro storia recente di frequentazione moderna dei sentieri non c’è una tradizione di “scarponi” come da noi e quindi non conoscono l’uso di calzature che coprano, limitandone i movimenti, la caviglia.
Per chi è nato è cresciuto e ha giocato sul cemento è difficile avere una buona articolazione laterale della caviglia. Per molti l’inclinazione laterale della caviglia viene associata alla “storta” un evento certamente da evitare.
Quello che la medicina chiama pronazione e supinazione sono praticamente movimenti che la vita sul terreno artificiale piano (pavimenti, strade, scale, ecc) riesce nel tempo a atrofizzare quasi del tutto.
Per questo chi affronta per le prime volte un terreno anche poco accidentato tende a ricercare l’equilibrio aprendo istintivamente le braccia per bilanciarsi. Se quest’ultimo ha ai piedi delle scarpe alte, la possibilità che un minimo movimento laterale della caviglia gli faccia trovare il giusto equilibrio, scompare del tutto.
Annapurna Circuit
Il risultato è che la persona si sente insicura, procede indecisa e con inutile sforzo, trovando il camminare su un sentiero un’attività più complicata di quello che è.
Solitamente chi si sente insicuro acquista delle scarpe che gli “proteggono”, bontà sua, la caviglia e quindi l’errore è fatto in partenza.
Per chi ha questi problemi (un sacco di persone) esistono dei semplici esercizi, fattibili anche in casa, che prevedono il muoversi su oggetti di forma irregolare posti sul pavimento e a distanza diversa, come fossero i sassi di un macereto o del greto di un fiume. Ciò nonostante nulla riesce a riprodurre la varietà di forme del terreno naturale e per esercitarsi anche in città basta essere ribelli e… calpestare qualche aiuola.
In tutti i casi vanno utilizzate scarpe basse che permettano di “sentire” il movimento che ci tiene costantemente in equilibrio. Finché non si avvertirà questa sensazione istintiva (in chi fin da piccolo ha potuto giocare sui prati, per es.) della caviglia che si inclina longitudinalmente e lateralmente a ogni passo adattando l’appoggio del piede al terreno sottostante.
Sacco pesante su ghiacciaio, qui hanno
senso le scarpe alte e perfino i bastoncini!
Se questo non avviene, sarà tutto il corpo a inclinarsi continuamente in maniera rigida non facendo trovare mai l’equilibrio e generando le spiacevoli sensazioni di cui sopra.
Come anche l’uso dei bastoncini, nelle persone sane, le scarpe alte limitano i movimenti utili alla camminata dando una sensazione di sicurezza totalmente falsa che si “acquista” nei negozi al momento di comprare questa o quella calzatura.
Le aziende produttrici di calzature devono venderle e quindi ne producono vari modelli alti perché il mercato dell’insicurezza li richiede.
Io ho collaborato e collaboro tutt’ora con aziende calzaturiere notissime e la stessa cosa me l’hanno sempre detta anche i produttori.
Le scarpe alte servono quando il terreno è innevato o ricoperto di ostacoli pericolosi come sterpi o oggetti appuntiti o taglienti (da qui le scarpe di sicurezza obbligatorie sui cantieri edili), ma quando si cammina su sentieri o si salgono vie ferrate, sono assolutamente deleterie.
I miti da sfatare (e distruggere) sono poi anche quelli legati alle suole.
Il marketing di molte aziende abili nel farlo, imbroglia molti escursionisti sprovveduti.
Qui non posso fare nomi (mi hanno già condannato per diffamazione per molto meno, sic) ma marche costose d’oltralpe e d’oltreoceano sono ambitissime dai più mentre hanno caratteristiche tecniche assolutamente negative. Suole dal grip inesistente di modelli molto in voga dovrebbero essere proibite, tanto sono pericolose, eppure sono ai piedi della più parte degli escursionisti. Così come anche tomaie comode solo nel negozio, quindi dal volume interno esagerato o inadatto al vostro piede, e che poi sui sentieri si rivelano più simili alle scatole che le contenevano che a uno strumento complesso come deve essere una scarpa da escursionismo o da trail running.
I modelli validi ci sono e, oltre ad essere bassi, hanno suole di gomma che aderisce bene ai vari terreni, un buon inserto ammortizzante sotto al tallone, su cui grava l’80% del peso del camminatore, e una tomaia le cui stringhe permettano un ottimale adattamento ai vari tipi di piede. Pesano poco e nel caso della suola Stealth (qui si che posso fare il nome perché ne parlo bene) in dotazione a pochissimi articoli sul mercato (chissà perché?) le prestazioni sul viscido, sulla ghiaia e comunque su ogni tipo di terreno non innevato, sono superiori anche del 60% a quelle dei modelli più altisonanti e alla moda.
Anche Vibram ha alcune mescole molto buone, ma non tutte quelle col classico bollino giallo lo sono. State all’occhio al momento dell’acquisto perché si trova di tutto e certe suole sono dei veri pattini a rotelle!!! Anche quando sono sotto a modelli costosi e famosi.
Col di Lana, Dolomiti, scarpe
basse d'estate fin da piccoli. Isa Kominet.
Mi sono sempre detto che se per le guide alpine è ormai d’obbligo l’uso dell’ARTVA d’inverno, lo stesso dovrebbe essere per avere certe suole sotto le scarpe nella stagione estiva. Infatti se devo assicurare delle persone andando a corda corta (di conserva) su terreno facile, ho assolutamente bisogno di avere un ottima aderenza sul terreno su cui ci si muove legati, appunto, da una corda.

Meno aderenza significa meno sicurezza per la cordata, una condizione, quella della sicurezza che per una guida (ma anche per un dilettante) deve rappresentare un pilastro imprescindibile.
Tommi Cominetti medita ai piedi del Fitz Roy in scarpe... da ginnastica (!)
Quindi equilibrio e buona aderenza sul terreno sono fattori determinanti!
Per questo sono anni che faccio queste riflessioni che ora ho scritto qui.


sabato 12 settembre 2015

LEGGENDE QUASI METROPOLITANE parte1^

Portatori carichi e turisti leggeri con bastoncini in Himalaya
Erano gli anni ottanta quando Reinhold Messner apparve in qualche foto, durante un avvicinamento himalayano, mentre camminava con tra le mani dei bastoncini da sci.
La cosa, sulle prime, passò inosservata ma neppure troppo.
Sono convinto che avesse preso una storta e usasse i bastoncini un po’ come delle stampelle da sentiero. Fatto stà che dopo qualche anno gli escursionisti, pressati dal consumismo indotto dalla crescita del numero delle aziende che producevano articoli da montagna, iniziarono a usarli per camminare sui sentieri.
Niente di più inutile, ma la cosa ebbe, proprio perché inutile (!) un grande successo e oggi, ma già da diverse stagioni, si vedono sui sentieri moltissimi di questi handicappati (=Aggettivo. Che si trova in condizioni di evidente svantaggio, di manifesta inferiorità) utilizzare le due aste per camminare.
Possono servire se trasportate grandi pesi ma è una cosa che nessuno fa, almeno dalle nostre parti.
Tralascio perché noiosi i racconti di quelli che usano repentinamente i bastoncini per indicare cime o direzioni colpendo il setto nasale di chi sopraggiunge da dietro.
Molti che si avvicinano al semplice camminare sui sentieri per la prima volta, acquistano assieme agli altri innumerevoli articoli inutili (potrei fare un lungo elenco che vi risparmio), anche i bastoncini, considerandoli un attrezzo indispensabile quanto le bombole per i subacquei o la racchetta per i tennisti.
L’essere umano, milioni di anni fa, aveva preso una direzione nell’evolversi da essere scimmiesco in umano, appunto, cercando faticosamente di assumere una posizione eretta, come si vede in quei disegnini di darwiniana memoria,  che ritraggono di profilo una scimmia che nelle immagini che seguono assume una posizione sempre più simile alla nostra odierna.
Certo, l’ultima posizione è un po’ ingobbita, la barba del “modello” è incolta e forse tra le mani ha una clava e il mento ancora troppo prominente, ma, cazzo, sembra un essere umano.
Ammesso che di vera evoluzione si tratti, quell’essere ancora selvaggio cammina però sulle due gambe e usa le mani per afferrare altri oggetti utili alla sua sopravvivenza, come la clava, appunto.
evoluzione?
Dopo avere afferrato innumerevoli oggetti nella lunga epopea della vita, quell’essere un bel giorno ha deciso di afferrarne due, uno per mano, per sostenersi nel camminare, come se un atavico impulso lo avesse fatto ricordare di quando nella notte dei tempi camminava a quattro zampe.
Io quest’impulso non l’ho mai sentito e cammino senza bastoncini, ma sono preoccupato per la moltitudine di persone che lo fanno e che incontro giornalmente. Un po’ come se notassi che la più parte dei miei simili iniziasse a nutrirsi di carne umana. Una cosa, insomma, verso la quale non potrei restare indifferente e soprattutto della quale mi riuscirebbe molto difficile darmi una spiegazione.
Ma invece sui sentieri molte, troppe persone camminano con i bastoncini tra le mani, muovendosi in un modo “nuovo” che l’essere umano mai aveva conosciuto prima. Provate a osservarli, muovono le spalle torcendo il busto a ogni passo pregiudicando seriamente e costantemente il loro equilibrio.
Camminare in equilibrio non è difficile
A parte che i bastoncini impediscono un agile ed eventuale utilizzo di una macchina fotografica, di un binocolo, di grattarsi un orecchio, di scaccolarsi e di fare un sacco d’altre cose che arricchiscono il monotono mettere un piede davanti all’altro: non si può camminare con le mani in tasca!
Sarà che facendo la guida alpina si va spesso piano piano e non si ha l’esigenza di muovere le braccia come quando si va velocemente, ma camminare su un sentiero con le mani in tasca è una cosa che da una soddisfazione enorme, alla faccia di chi dice che è pericoloso. Camminare con le mani in tasca sui sentieri denota un buon equilibrio psichico e fisico di chi lo fa con naturalezza, altro che balle!
Chi ha bisogno di puntellarsi a ogni passo con due bastoncini o è azzoppato, caso in cui l’uso del bastone è necessario, oppure ha qualcosa nel cervello che non funziona.
Salvano le ginocchia in discesa, dicono i più ferrei sostenitori del bastoncino telescopico, ma se le ginocchia venissero piegate a ogni passo assieme alle caviglie al bacino e al busto in una costante e armoniosa ricerca dell’equilibrio imposta via via dalla mutevole natura del terreno, vi assicuro che non se ne sentirebbe nessun bisogno. Anche perché usare per bene le gambe allena i muscoli sopperendo a eventuali deficienze fisiche dovute a eventuali traumi precedenti, salvandoci la schiena, le cartilagini delle ginocchia evitandoci pure di morderci la lingua.
Senza parlare della piacevole sensazione, che il muoversi nella maniera giusta seguendo le ondulazioni del terreno, ci regala a ogni passo facendoci sentire parte ben accetta dal luogo che attraversiamo.
Camminando con i bastoncini ci muoviamo rigidamente, in maniera totalmente innaturale, involuta ed estranea al terreno e all’ambiente che ci circonda, un po’ come se passassimo di lì in fuoristrada.


Liberi dai bastoncini in posizioni naturali
Poi vedo che in moltissimi, se si fermano per fare una breve sosta, quando ripartono si dimenticano dei bastoncini appoggiati a terra, segno della loro non-indispensabilità. Ogni tanto quell’impulso balordo e autoindotto che ce li aveva fatti acquistare, si annulla al nostro interno riportandoci a una condizione più naturale di esseri umani primordiali e felici, spensierati e scaccolati perché con le mani libere e lo spirito leggero.
Basta osservare i popoli che vivono camminando perché non ci sono strade e quindi automobili a casa loro. Il bastone lo usano i vecchi o gli storpi ma nessuna persona sana e in forze.
Alcuni li portano legati allo zaino come un feticcio rassicurante simbolo del terrificante principio del “potrebbe servire”.
Non parliamo poi dell’antieducazione motoria che l’uso dei bastoncini sviluppa in chi li usa. E’ come se anche sui sentieri si fosse alla costante ricerca di un appoggio perennemente mancante nella vita di tutti i giorni.
Invece non potrebbe essere proprio il sentiero un maestro silenzioso, che instilli in chi non le possiede, determinate chiarezze e sostegni morali?
Un sentiero è la natura stessa, è irregolare e appuntito e quindi insegnante specie quando diventa ripido, è una metafora dell’esistenza al pari di una notte nei bassifondi di una grande città, di un concerto del nostro musicista preferito o la strada che ci ha portati sulla montagna dei nostri sogni, qualcosa che ci insegna l’essere giusti verso noi stessi per poi poterlo essere con gli altri. Mica una cosa di poco conto… E noi lo prendiamo a bastonate!?
Due bastoni tra le mani nel percorrerlo ci possono solo fare inciampare nei nostri dubbi e rovinarci goffamente la magnifica esperienza del traslare la nostra posizione con le nostre forze, in equilibrio, mettendo in perfetta armonia le sopracciglia con le dita dei piedi. Provateci leggeri!