Mi sorprendo ogni volta di fronte a chi è innamorato dell'Alto Adige/Suedtirol perché, dice, è tutto pulito e ordinato. Mi è sempre sembrata una visione moto superficiale e neppure così reale. I motivi per apprezzare o meno un luogo e un popolo, secondo me, sono molto più profondi e dopo 40 anni di vita tra queste valli, mi sento di raccontarlo con una semplice storia di vita, ambientata nei miei primi anni, quando era ancora obbligatorio il servizio militare.
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Scialpinismo in Arhntal/Valle Aurina, Sattelspitze 2850m. |
Nei primi giorni del Gennaio 1982 giunsi a S.Candido in Val
Pusteria, assegnato al Battaglione Alpini Bassano e più precisamente alla
Compagnia Comando e Servizi in qualità di comandante di plotone esploratori.
Gli esploratori, poi denominati alpieri, rappresentano quello che
nell’immaginario collettivo è il vero alpino.
Sciatori, alpinisti, fondisti, marciatori e sportivi della
montagna in genere vengono assegnati a questa specialità delle Truppe Alpine
costituendo una elite di 21 soldati con compiti svariati che vanno da quello di
fuciliere assaltatore al soccorritore alpino e all’attrezzatore di vie per fare
salire tutto il resto dei reparti in montagna, sia d’estate che d’inverno con
armamenti pesanti e leggeri. Nonostante i miei 21 anni non ancora compiuti, mi
ritrovavo ad essere responsabile dell’addestramento e dello svolgimento di
varie attività in montagna, di un gruppo di ragazzi verso i quali mai mi riuscì
di applicare la disciplina ferrea che pretendevano i miei superiori. La
passione per l’alpinismo e lo sci, sia di fondo che alpinistico, ci faceva
sentire un gruppo di privilegiati che raramente dovevano “giocare alla guerra”
perché impegnati per lo più in attività sportive di soddisfazione.
Per un periodo venimmo assegnati a svolgere il soccorso
piste nel comprensorio Baranci-Monte Elmo trascorrendo giornate che sembravano
più di vacanza che di servizio militare. Fuori dalla caserma il nostro punto di
aggregazione era la pasticceria Wachtler dove lavoravano cameriere bellissime e
molto bella era pure la proprietaria, una certa Silvia che dopo poco più di un
anno dal nostro arrivo convolò a nozze con un mio collega.
I miei alpini erano quasi tutti di lingua tedesca e, a parte un lombardo e un
trentino, erano tutti sudtirolesi.
Villgrater, Stauder, Gschnitzer, Preindl, Spiess, Oberrauch, Steinwander,
Daverda, Schönegger
erano alcuni dei cognomi che ricordo oltre a Munari e Andreatta, gli unici due
italiani.
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Arco (TN) 1982. Con i miei allievi. Indossavo le scarpette S.Marco Berhault appena uscite |
Tre sergenti comandavano tre squadre composte da 6 alpini cadauna e
la loro gestione era per me la cosa più complicata perché ero un loro superiore
ma loro erano militari professionisti mentre io lo ero per un periodo di 15
mesi perché dopo sarei tornato alla vita civile. Ciò nonostante avrei avuto la
possibilità di fermarmi nell’esercito come ufficiale effettivo e non più di
complemento come ero in quel periodo.
Soggiornavo presso l’hotel Aquila Nera, in centro paese, non perché fosse
particolarmente economico, ma perché mi ero invaghito della figlia dei
proprietari che però era già promessa a uno degli imprenditori della valle.
Poco prima di essere assegnato al reparto a S.Candido la mia fidanzata mi aveva
lasciato per uno che restava a casa perché non so per quale motivo non doveva
fare il servizio militare, mentre io terminavo il durissimo corso per allievi
ufficiali alla Scuola Militare Alpina di Aosta che non mi aveva lasciato
energie neppure per piangere come avrei voluto. Avrei voluto dimenticarmi di
lei e pensavo che un’altra ragazza avrebbe fatto al caso, ma con quella che
avevo scelto non c’era speranza perché era guardata a vista da sua madre e dal
suo promettente fidanzato. Una soddisfazione però me la presi la sera che lei
mi raccontò che voci di caserma dicevano che era arrivato un nuovo comandante
del plotone esploratori che era molto benvoluto dai suoi soldati. Siccome lei
non sapeva quali mansioni io avessi, me lo disse pensando che si trattasse di
un altro ufficiale e non certo di me.
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Sass Pordoi 1982. L'attrezzatura da sci militare aveva fatto passi da gigante: sci Maxel, attacchi Zermatt Nepal e scarponi S.Marco Raid! |
Quel mese di Gennaio stava passando abbastanza piacevolmente
perché a breve ci sarebbero stati i campionati di Brigata di biathlon e con
alcuni dei componenti del mio plotone ci allenavamo giornalmente e ci
spartivamo i turni del soccorso piste.
Ero già stato in vacanza diverse volte con i miei genitori in Alto Adige e
quindi sapevo benissimo che gli abitanti delle valli erano quasi tutti di etnia
e lingua tedesca e che non avevano in simpatia gli italiani, o almeno queste
erano le voci che giravano. Loro per noi erano crucchi e noi eravamo walschen.
Questi luoghi comuni non mi hanno mai convinto e infatti ho sempre trovato
persone buone e cattive in ogni etnia, quindi i miei alpini crucchi a me
piacevano e cercavo di avere il rispetto che si meritava un popolo che suo
malgrado si era ritrovato italiano dopo la prima guerra mondiale. Cercavo di
far capire loro che eravamo tutti sulla stessa barca e che avremo dovuto
cercare di trascorrere al meglio quell’anno di leva che la legge imponeva.
Spesso firmavo dei permessi a quello che poteva essere un mio compagno di
cordata per andarci a fare un’ascensione o una gita sci alpinistica, intanto
non avevo di certo l’esigenza di andare in licenza fino a Genova vista la
lontananza e questo contribuì a farmi vivere il posto e la sua gente anche al
di fuori del ruolo militare che avevo.
Nei fine settimana quelli che avevano diritto a una licenza di almeno 24 ore
raggiungevano spesso casa e chi aveva un automobile lo faceva guidando come un
pazzo per avere più tempo da dedicare alla ragazza o alla famiglia. Gli
incidenti stradali, anche gravi, non mancavano.
Il Caporale Hartmann Daverda, oltre alla
ragazza e alla famiglia, dedicava tempo alla sua passione per lo scialpinismo
che aveva imparato nella sua bellissima valle al confine con l’Austria, la
Valle Aurina. Anzi, se guardiamo una carta geografica noteremo che la Valle
Aurina o Arhntal nel suo nome originale, altro non è che una penisola in
territorio austriaco i cui confini sono una linea politica che nulla ha a che
fare con l’effettiva geografia del luogo. E’ la parte più settentrionale del
nostro paese, dove la cima Klockerkarkopf è stata rinominata Vetta d’Italia.
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2024 Arhntal, verso la Sattelspitze, sullo sfondo l'abitato di Prettau/Predoi |
Io sono italiano ma uso più volentieri le denominazioni tedesche di questi
luoghi perché sono quelle originali. Durante il fascismo ci fu un certo Tolomei
che il Duce aveva designato come colui che avrebbe dovuto italianizzare tutti i
toponimi tedeschi, spesso senza tradurre semplicemente il nome ma attribuendone
uno di fantasia che nulla aveva a che vedere con il significato di quello
originale.
Se nella storia si sviluppò un odio verso gli italiani da parte di molti
alto-atesini (o sudtirolesi) il motivo va cercato anche nei modi autoritari,
colonialisti e irriverenti verso la cultura sudtirolese che i politici italiani
hanno usato fino agli anni ’80.
Nel 1956 si costituì in Alto Adige un gruppo irredentista
tirolese che voleva l’indipendenza dall’Italia e che pose tra i suoi primi
obiettivi, come gesto altamente simbolico, la distruzione della tomba di Ettore
Tolomei. Fino alla fine del 1988 ci furono 361 attentati dinamitardi e/o armati
con un totale di 21 morti e diversi feriti. Lo Stato Italiano, per combattere
l’ondata terroristica, istituì una task force costituita da Carabinieri,
Finanzieri, Poliziotti, Paracadutisti e Alpini che agiva nelle valli di confine
con l’Austria perché molti dei terroristi andavano e venivano da quest’ultima.
Tra le fila nazionali c’erano ufficiali e sottufficiali spesso razzisti e un
po’ esaltati. Ne ho conosciuto qualcuno restandone impressionato non proprio
positivamente e uno di loro era un mio diretto superiore. Costoro parlavano dei
sudtirolesi come avrebbero fatto i cowboys degli indiani d’America ed era
evidente che un clima simile non avrebbe di certo favorito un rapporto civile
tra i due gruppi etnici.
I primi di Febbraio del 1982 un venerdì sera consegnai dei
permessi agli alpini che durante il fine settimana avrebbero avuto una breve
vacanza dall’Esercito. Chi solo il sabato e chi, più fortunato, sarebbe
rientrato la domenica sera in tempo per il contrappello che veniva fatto alle
23.
Il lunedì successivo all’adunata di tutto il Battaglione nel cortile principale
della caserma Cesare Battisti la fila di una delle mie squadre aveva un “buco”
perché un alpino mancava dal suo posto. Era il posto del vice-comandante di
squadra, ruolo di solito ricoperto da un Caporale. Prima dell’alza bandiera uno
scritturale di fureria della mia Compagnia mi avvicinò sussurrandomi che
Daverda era morto sotto una valanga il giorno prima.
Ci dovemmo comporre velocemente per la cerimonia giornaliera in cui ogni
singolo comandante di Unità riferisce al comandante del Battaglione eventuali
novità.
Il tutto avviene in maniera assai formale e veloce con at-tenti, riposo e
saluti al cappello senza lasciare spazio a ulteriori convenevoli che semmai possono
poi seguire una volta terminata l’adunata nei rispettivi uffici dei comandanti.
Dovetti dire senza fronzoli o emozioni al Tenente Colonnello: 20 alpini
presenti di cui uno assente perché deceduto in licenza.
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1982 esercitazione con barella Mariner sulle Torri di Sella |
Rotte le righe, ognuno si dirige ai suoi compiti ma io
dovetti passare per l’ufficio del comandante a riferire con più dettagli cosa
fosse accaduto a Daverda.
Dovetti anche andare dai Carabinieri a denunciare l’accaduto e assieme
chiamammo a casa del povero Daverda per sapere più dettagli e quando ci sarebbe
stato il funerale.
Era chiaro a quel punto che tutto il mio plotone avrebbe dovuto essere, secondo
me, a Prettau (Predoi) due giorni dopo al funerale del nostro amico Hartmann.
Non era così chiaro però secondo il mio comandante, che era uno di quelli che
fino a poco tempo prima aveva fatto parte di quella Unità Speciale di Rinforzo
per l’Alto Adige che contrastava il terrosismo. Alla mia richiesta di farci
partecipare al funerale del nostro amico mi rispose che quella era una zona
“calda” per l’attivismo sudtirolese e che non sarebbe stato prudente andare
come militari proprio lassù. D’altro canto non concedeva un permesso a tutto il
mio plotone per farci andare al funerale, quindi ci saremmo dovuti andare
mentre eravamo in servizio! Ovviamente in divisa e con i mezzi militari.
Per me era la prima volta che perdevo un amico in montagna. Sentivo come un
dovere il dargli un ultimo saluto e l’avrei fatto con tutti i compagni di
caserma!
Hartmann era un tipo in gamba, ottimo sciatore, di poche parole, specialmente
in italiano perché oltre a: fucile, zaino e licenza, non sapeva dire di più ma
il suo sguardo intelligente era sufficiente per capirci e poi era sempre di
buon umore e aveva carisma sugli altri. Per quello l’avevo fatto promuovere
Caporale e anche se lui rideva del fatto che l’Esercito di un paese “nemico”,
perché quella era la sua percezione, gli avesse addirittura dato delle mansioni
di comando, sapevo che ne era anche un po’ fiero. Si vedeva da come si
rivolgeva ai suoi compagni ai quali ironicamente dava degli ordini con voce
marziale che puntualmente venivano derisi scherzosamente, lasciando però
trasparire negli altri una sorta di ammirazione per quel ragazzo tarchiato che
sugli sci era una forza della natura anche sulle nevi più difficili.
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1982 Val Badia. Diedro Mayerl Sass dla Crusc
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Daverda aveva una sciata molto naturale e solo apparentemente aggressiva. Si
capiva che comandava lui e non la neve. Teneva gli sci paralleli ma non uniti
come si usava allora. Sciava con gli sci alla distanza naturale secondo la
larghezza del proprio bacino, tecnica che di lì a poco sarebbe divenuta
“ufficiale” perché garantisce un maggior equilibrio e un’azione sterzante in
curva più efficace.
Era mitragliere e portava a tracolla la mitragliatrice MG 42/59 dal peso di una
dozzina di kg più il nastro di cartucce! Durante un’esercitazione a Passo
Montecroce Comelico si era lanciato giù da un canale ripidissimo in un bosco
fitto di larici con ai piedi gli scarponi da sci d’ordinanza, che erano gli
stessi in cuoio che tenevamo ai piedi in caserma, gli sci di legno con le
lamine avvitate e l’attacco Silvretta-Kandahar, sparando (a salve)
all’impazzata sul nemico mentre io scendevo lo stesso versante coadiuvato dal
Sergente Costa e la sua squadra in cui un membro portava un lanciarazzi leggero
anticarro (detto bazooka), ma su terreno aperto. Daverda ci copriva. Avevamo
tutti lo zaino pieno di cose inutili, quindi piuttosto pesante, le tute
mimetiche bianche in spesso cotone che non permettevano di certo movimenti
sciatorii fluidi e il FAL (fucile automatico leggero, ma solo di nome) a
tracolla, più le munizioni, qualche bomba a mano in tasca e l’elmetto d’acciaio
calcato in testa. Per fortuna che eravamo giovani e forti! Dietro di me c’era
sempre il fido radiofonista, un trentino di Tione che, oltre allo zaino sulla
schiena e l’armamento d’ordinanza come gli altri, aveva appesa sul petto una
radio RV3 per una buona dozzina di kg più l’antenna lunga 3.5m che si
impigliava ovunque nel bosco. Eppure riuscivamo a muoverci abbastanza agilmente
nella neve fonda fino a che ci ritrovammo su un versante dove la neve era
durissima, la pendenza piuttosto ripida e dovevamo assolutamente ripararci dal
tiro nemico. Andreatta, il radiofonista, slittò perdendo il controllo
travolgendomi e insieme iniziammo a ruzzolare verso valle con tutte le nostre
pesanti attrezzature. Ci arrestammo fortunosamente su un balcone da dove
Daverda/Rambo poteva vederci ma non si spiegava perché fossimo uno addosso
all’altro. Mentre ci districavamo cercando di darci un contegno mi scappò un: Andreatta
che cazzo fai! La risposta fu: zio can, tenente, go ciapà l’giaz!
La sera, da Frida, sul lago di Dobbiaco, dove andavamo ogni
tanto a berci una birra, dovetti offrire da bere per tutti.
Il tempo che mancava al funerale era sempre meno e il
comandante non si decideva ad autorizzare la nostra partecipazione. Ci
trovavamo in una situazione in cui avremmo fatto anche la cazzata di
contravvenire agli ordini ammutinandoci, tanto era la convinzione che avevamo
di andare a salutare l’ultima volta il nostro amico a casa sua. Lo riferii al
Colonnello che, seppure contrariato, capì che nel nostro plotone c’era un forte
sentimento di amicizia e di tristezza per avere perso un compagno di avventure.
Perché sono lo sforzo e il disagio a creare le vere amicizie. Alla fine ci
consentì di andare a Prettau ufficialmente, al funerle del nostro amico
Hartmann.
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1982 Hans Peter Steinwander sulla Via Cassin, Cima Ovest di Lavaredo
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La mattina presto feci preparare un autocarro Lancia ACL e un FIAT ACM sui
quali prendemmo posto. A Febbraio in Alta Pusteria le temperature erano
tutt’altro che alte. Direi che nella maggior parte dei giorni erano decisamente
polari! A quei tempi la truppa viaggiava armata sul cassone degli autocarri con
il telone sollevato per motivi di sicurezza, tanto più da quelle parti, e gli
spostamenti erano un vero supplizio dato il freddo. Arrivati a Prettau
parcheggiammo i due autocarri sotto la chiesa davanti agli sguardi stupiti
degli astanti. Feci lasciare le armi sui camion con a guardia i due autisti,
armati a loro volta. La funzione fu semplice e commovente pur nella sua
freddezza teutonica e il prete ringraziò anche in italiano, cosa stupefacente,
noi che eravamo intervenuti. Dopo la sepoltura ci fu un rinfresco, cosa per me
inusuale, e tutto si svolse in un modo a me sconosciuto ma che in qualche modo
mi faceva capire che c’era dell’affetto tra tutte quelle persone anche verso di
noi in divisa “nemica”, e che la passione per la montagna ci teneva uniti ben
oltre l’obbligo militare.
Nel 2021, in piena epoca Covid 19 andai a fare una gita di
scialpinismo con un amico proprio sopra al paese di Prettau. Al ritorno chiesi
all’ amico di fermarsi un momento con la sua macchina davanti alla chiesa
attorno alla quale c’è un giardino costellato di tombe. In sudtirolo i cimiteri
sono intorno alla chiesa. C’era quasi un metro di neve e cercare la tomba di
Hartmann non era facile, anche perché non ricordavo dove fosse. Non la trovai e
tornai alla macchina.
Nel 1983 a Finale Ligure avevo aperto una nuova via di arrampicata a Monte
Cucco su una parete alta poco meno di un centinaio di metri. L’avevo chiamata
Hartmann e ogni volta che risalgo con le pelli di foca sotto agli sci una
laterale della Arhntal per raggiungere qualche cima, mi ricordo con nostalgia
di quel sorriso irriverente.
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Aprile 1982 Val Mesdì, Corvara. |