giovedì 26 settembre 2024

UNA RAGAZZA DI MONTAGNA, recensione del libro scritto da Deborah Compagnoni (Ed. Rizzoli).

Semplici racconti scritti col cuore per farci ricordare quanto sia importante vivere secondo natura anche ai giorni nostri, quelli della civiltà dei consumi.
Deborah non ha bisogno di presentazioni, perché tutti ne conoscono le gesta sportive ormai leggendarie, e parlando spesso con lei le ho sempre detto di apprezzare il fatto di avere avuto una vita montanara, con il papà guida alpina e maestro di sci e una mamma albergatrice che le hanno insegnato, oltre allo sci quando aveva tre anni, anche a stare al suo posto con consapevolezza, nel paesino dov'è cresciuta: Santa Caterina Valfurva.
Questo ha significato vivere al ritmo delle stagioni in armonia con la natura, che ti insegna a riconoscere gli animali, le piante e le rocce, la neve, i pericoli, e con la sua base sconnessa, a stare sempre in equilibrio. 

Certo, non tutti hanno la fortuna di nascere in una valle alpina dove la natura è lì fuori dalla porta, ma questi racconti di vita vissuta, fanno capire quanto sia importante e semplice non ricercare troppe cose che possano solo complicarci l'esistenza e cercarsi con tutte le proprie energie una passione da desiderare. Come la prima giornata sugli sci, tanto sognata, perché il fratello più grande lo faceva già e lei troppo piccola, doveva aspettare che fosse il momento adatto. Le lunghe scarpinate su per i sentieri, sui ghiacciai, le notti in baita, i pasti frugali e l'amicizia, sono i protagonisti di questi racconti che nella loro leggerezza narrativa possiedono una sconfinata profondità, perché sono connessi alle nostre sensazioni più intime e fondamentali. Quelle che ci fanno sentire sereni. Ecco, quello che maggiormente trasmettono le parole di Deborah, assieme agli acquarelli che ne amplificano la portata, è un senso di serenità tutt'altro che lieve, nonostante la quasi ingenuità dei fatti descritti, c'è sempre da stupirsi di qualcosa, da pensare e da trarre insegnamento. Errori compresi, com'è giusto che sia.
Involontariamente questi racconti ci portano in una specie di paese delle meraviglie raggiunto solo apparentemente senza sforzi. Invece dietro c'è una volontà di ferro sviluppatasi crescendo lungo una vita che sempre richiede energie e capacità per essere assorbita. Sembra non esserci mai un momento trascorso senza essere vissuto o senza che abbia insegnato qualcosa da tenere da conto.
In fondo Deborah è così nella vita di tutti i giorni ancora oggi, che è madre di 3 figli e appassionata di montagna a tutto campo. Non c'è giornata, al netto dei suoi impegni vari, che non parta per una camminata, una sciata o una scalata con l'entusiasmo che il fare fatica richiede a chiunque e che regala a chi lo sa cogliere la pienezza di una vita intensa e gustosa.
Ph. -gettyimages-



Oggi Deborah Compagnoni è impegnata nel sociale aiutata dalla sua popolarità che le permette di catalizzare attorno a sè energie positive per sostenere, tramite la sua Organizzazione di Volontariato Sciare per la Vita (da cui è nata in seguito Camminare per la Vita www.sciareperlavita.it), diversi progetti di ricerca scientifica e assistenza ospedaliera in campo pedriatico.
Il messaggio che il libro trasmette è dell'importanza dello sport e di una vita il più possibile a contatto con la natura per i giovani, ma si propone come manuale educativo anche per i genitori.
Considerando che Deborah non ama stare sotto ai riflettori e conduce una vita di basso profilo, questo libro le calza a pennello, perché il racconto della sua vita si ferma quando entra a fare parte della Squadra Nazionale di Sci Alpino, lasciando a bocca asciutta chi si aspettava discese vertiginose e lotte per  podio e medaglie. Quella è un'altra storia.


Nota
Ho cercato di scrivere due righe sul nuovo libro di Deborah con il massimo distacco emotivo, come avrebbe fatto e probabilmente meglio di me, un classico critico editoriale, ma la verità è stata che, dopo averlo letto prima ancora che uscisse, mi sono decisamente commosso. Sarà che conosco Deborah  e quindi mentre leggevo ero coinvolto più del normale, ma in molti fatti mi sono rivisto anch'io da piccolo e istintivamente ho sentito che anch'io mi sarei comportato nello stesso modo trovandomi in certe circostanze. Lo spirito ribelle, una certa insofferenza verso il sistema e la curiosità di non fermarsi all'esteriorità delle cose, anche a costo di clamorose facciate, fanno parte anche del mio modo di essere, e trovare certe corrispondenze in questo libro mi ha decisamente emozionato. Il tutto nonostante in molte occasioni ci sia capitato di parlarne o di comportarci in quei modi assieme ai nostri compagni di gita, ma leggerlo in un libro che finirà nelle mani di moltissime persone, mi ha toccato nel profondo ancora di più. E lo scrivo qui, nella nota, perché questo è il mio sito e ci scrivo quello che mi pare.
Confido sul fatto che solitamente il lettore superficiale non legge le note e che da divoratore seriale di libri di montagna, considero questo "Una Ragazza di Montagna" un libro che ogni alpinista, sciatore, escursionista e avventuriero in genere, dovrebbe leggere. Si tratta di una base di partenza per dirigersi poi verso le altitudini della crosta terrestre a vario titolo, così come per vivere anche la dimensione orizzontale dell'esistenza.

 

domenica 7 luglio 2024

ESTATE 2024

 Sono molte le proposte estive per alpinisti, arrampicatori sportivi, escursionisti e praticanti di vie ferrate, che trovate nella colonna qui a destra, ma sappiate che potrete richiedere l'accompagnamento da parte di una guida alpina anche per una singola giornata nelle Dolomiti.


Marcello Cominetti, guida alpina, tel e whatsapp +39.3277105289 info@marcellocominetti.com 

Jean Luis Trintignant nel film: IL SORPASSO (1962)
con alle spalle foto del Cerro Torre in Patagonia.





lunedì 1 aprile 2024

L'ISTANTE ZERO

Foto Birgid Mander

 Al di là del bene fisico che fa camminare su un sentiero di montagna, ho sempre riscontrato che, mentre si è immersi nello sforzo monotono del mettere un piede davanti all’altro, arrivano, come se lo avessimo pensato in anticipo, pensieri positivi e idee.

Lo stesso accade durante le gite sci alpinistiche, dove lo sforzo e il movimento durante l’ascesa, non si discostano molto da quello che si fa quando si cammina.
Sono entrambe attività che mi succede di svolgere piuttosto spesso, per il mio lavoro di guida alpina o per il mio piacere personale. Non importa quanto questo tipo di attività duri in termini di tempo, ma importa che la partenza sia voluta anche quando la pigrizia suggerirebbe di stendersi sul divano, attività che considero remunerativa al recupero, solo se ci si è stancati prima. Altrimenti la sera avremo un senso di inutilità del vivere che però non è ciò di cui vorrei parlare ora.

Foto Michele Barbiero

I pensieri che si materializzano nella nostra mente mentre camminiamo possono essere di vario tipo, ma ultimamente ce n’è uno che mi ricorre in testa da molte gite, quindi voglio scriverne perché non si sa mai che magari non venga più a visitarmi piacevolmente la mente. In verità si tratta di pensamenti che ho da decenni, ovvero da quando mio figlio maggiore Tommaso aveva pochi mesi di vita e con sua madre eravamo nella costante ricerca confusa di qualcosa che lo facesse stare bene. Siccome a noi giovani genitori piaceva stare all’aria aperta, anche lui si ritrovava costretto a stare fuori con noi, convinti che fosse una buona occasione per assimilare dalla natura insegnamenti che di molto oltrepassano il semplice, ma indispensabile, respirare aria buona.

Tommaso aveva meno di un anno ma camminava già o comunque si arrangiava a gattonare laddove l’irregolarità del terreno non gli garantiva sufficiente equilibrio. Tra gattonaggio e camminata in posizione eretta o quasi, riusciva a spingersi anche su facili roccette, cespugli, greti di ruscelli e montagnette erbose, grazie al fatto che la nostra sorveglianza non era poi così stretta.

Mia figlia Isabel










Gli piaceva essere lanciato in aria o sul letto da distanze sempre maggiori, cosa che divertiva anche me, ma un giorno si ruppe un braccio cadendo malamente tra dei cuscini. Glielo ingessarono e non ne fu per nulla felice, tanto che nessuno poteva toccargli il gesso, pena l’essere preso a urla di disprezzo.

Con mio figlio Tommaso

Mentre lancio in aria mio figlio
Foto Elisabetta Marinaro

I lanci per aria, però, continuavano, perché ci piacevano e ci facevano fare grandi risate.
Realizzai che durante il lancio per aria del bambino, come di qualsiasi altro oggetto, c’è un istante in cui il corpo si ferma nell’aria prima di iniziare a precipitare nuovamente verso il basso. E’ un momento che dura una frazione di secondo, ma si può considerare, pur nella sua brevità, come un momento in cui si è immobili nell’aria. Situazione particolare in cui anche i fluidi del corpo, sensazioni comprese, hanno un cambio netto di direzione o un arresto come di riflessione.

Franz Salvaterra lancia sua figlia Lisa. Foto Chiara Stenghel

Me ne accorsi perché captai negli occhi di mio figlio come un lampo di meraviglia misto a stupore e saggezza. Quando lo riafferrai sotto le ascelle eravamo felici come sempre, ma notai che qualcosa era successa.
Vedere il mondo da lassù di quell’istante immobile ha sicuramente avuto un suo effetto che a me è sembrato di universale assorbimento di tutto ciò che ci stava attorno, compreso il senso di sicurezza infuso in mio figlio dalle mie mani che lo riafferravano prima che si schiantasse a terra.

Ho sempre giocato in questo modo con i miei figli perché sono sempre stato certo di riprenderli al volo anche se avrei potuto sbagliare. Sono stato conscio di entrambe le situazioni ma evidentemente la prima ha sempre prevalso sulla seconda, altrimenti avrei evitato.

Penso anche che una manovra simile possa trasmettere in un bambino piccolo una sicurezza interiore che dal genitore transita come per osmosi ai propri figli. Certi genitori non farebbero mai un gioco simile per paura che il pargolo caschi a terra facendosi male, ma questa è un ipotesi che non mi ha mai sfiorato. Non suggerisco a nessuno di farlo se già non gli era venuto in mente naturalmente.

Alessandro Gogna lancia sua figlia Petra. Foto Bibiana Ferrari

D’altronde nella vita quante volte capita di dover prendere decisioni che possono avere anche conseguenze estremamente negative? Si tratta della vita stessa e del fatto che nulla arriva gratis, bisogna sempre mettersi in gioco se si vuole ottenere qualcosa a cui si tiene.

Mi sembra che i ragazzi che da piccoli sono stati lanciati in aria dai genitori abbiano qualcosa che li distingue dagli altri. Non lo noto solo nei miei figli ma anche negli altri che hanno oppure no, subìto simili trattamenti.

Non potevano opporsi di certo, ma penso che sia stato bene così.
Anche mio padre mi lanciava in aria da piccolo. Forse sono caduto.



venerdì 8 marzo 2024

DOLOMITI, SCIALPINISMO DI PASQUA 29MARZO-1APRILE 2024. 500€/persona min. 4 pers.

 

Cima Tofana di Rozes 3225m.









MANDATO IN VACCA DAL MALTEMPO

Le Dolomiti, scialpinisticamente parlando, riservano agli appassionati vere e proprie "chicche" specie in primavera, quando il manto nevoso assestato consente di spingersi con relativa sicurezza sui pendii che portano su alcune delle cime più interessanti e remunerative. Manco a dirlo, le discese che riconducono alla base sono di qualità eccelsa, tanto da farne rientrare alcune tra le più belle delle Alpi tutte e forse, aggiungo, del mondo intero!



Infatti, a puro titolo di esempio, le discese dalla Tofana di Rozes, dal Piz da Lech, da La Varella, dalla Marmolada di Penia o dal Monte Casale, solo per citarne alcune tra quelle dietro casa, si propongono con salite anche tecniche e discese superlative.


La mia proposta è destinata a scialpinisti di buone capacità e si articola su tre gite in tre giorni.

La base sarà in appartamento a casa mia (oppure in altra sistemazione purchè nel Comune di Livinallongo del Col di Lana, per praticità. Vedere: www.arabba.it) e ogni giorno si partirà per qualche decina di minuti d'auto per portarci alla partenza della gita prescelta.



Ovviamente le gite verranno scelte giornalmente a seconda delle condizioni nivo-meteo allo scopo di garantire la massima sicurezza assieme alla massima godibilità delle stesse.

1°g. ritrovo presso la mia abitazione in Via Corte 35 entro la sera. Cena libera presso ristorante tipico poco distante.

2°g. gita

3°g. gita

4°g gita e fine del programma.

Vista la stagione la partenza per le gite sarà piuttosto presto al mattino, quindi il rientro dalle gite è da immaginarsi verso metà pomeriggio.

Corte



La quota comprende: sistemazione in appartamento, guida alpina per 3 giornate.

La quota NON comprende: spese di viaggio e spostamenti, pasti, quanto non compreso alla voce precedente.

Attrezzatura: da scialpinismo con artva, pala, sonda, + rampant, ramponi, piccozza, imbragatura (leggeri, questi ultimi tre elementi)


INFO +39.3277105289 

info@marcellocominetti.com 

TERMINE ISCRIZIONI: 20-MARZO-2024

lunedì 12 febbraio 2024

Ricordo di un ragazzo

 Mi sorprendo ogni volta di fronte a chi è innamorato dell'Alto Adige/Suedtirol perché, dice, è tutto pulito e ordinato. Mi è sempre sembrata una visione moto superficiale e neppure così reale. I motivi per apprezzare o meno un luogo e un popolo, secondo me, sono molto più profondi e dopo 40 anni di vita tra queste valli, mi sento di raccontarlo con una semplice storia di vita, ambientata nei miei primi anni, quando era ancora obbligatorio il servizio militare.

Scialpinismo in Arhntal/Valle Aurina, Sattelspitze 2850m.








Nei primi giorni del Gennaio 1982 giunsi a S.Candido in Val Pusteria, assegnato al Battaglione Alpini Bassano e più precisamente alla Compagnia Comando e Servizi in qualità di comandante di plotone esploratori.
Gli esploratori, poi denominati alpieri, rappresentano quello che nell’immaginario collettivo è il vero alpino.

Sciatori, alpinisti, fondisti, marciatori e sportivi della montagna in genere vengono assegnati a questa specialità delle Truppe Alpine costituendo una elite di 21 soldati con compiti svariati che vanno da quello di fuciliere assaltatore al soccorritore alpino e all’attrezzatore di vie per fare salire tutto il resto dei reparti in montagna, sia d’estate che d’inverno con armamenti pesanti e leggeri. Nonostante i miei 21 anni non ancora compiuti, mi ritrovavo ad essere responsabile dell’addestramento e dello svolgimento di varie attività in montagna, di un gruppo di ragazzi verso i quali mai mi riuscì di applicare la disciplina ferrea che pretendevano i miei superiori. La passione per l’alpinismo e lo sci, sia di fondo che alpinistico, ci faceva sentire un gruppo di privilegiati che raramente dovevano “giocare alla guerra” perché impegnati per lo più in attività sportive di soddisfazione.

Per un periodo venimmo assegnati a svolgere il soccorso piste nel comprensorio Baranci-Monte Elmo trascorrendo giornate che sembravano più di vacanza che di servizio militare. Fuori dalla caserma il nostro punto di aggregazione era la pasticceria Wachtler dove lavoravano cameriere bellissime e molto bella era pure la proprietaria, una certa Silvia che dopo poco più di un anno dal nostro arrivo convolò a nozze con un mio collega.


I miei alpini erano quasi tutti di lingua tedesca e, a parte un lombardo e un trentino, erano tutti sudtirolesi.
Villgrater, Stauder, Gschnitzer, Preindl, Spiess, Oberrauch, Steinwander, Daverda, Schönegger erano alcuni dei cognomi che ricordo oltre a Munari e Andreatta, gli unici due italiani. 

Arco (TN) 1982. Con i miei allievi. Indossavo le scarpette 
S.Marco Berhault appena uscite

Tre sergenti comandavano tre squadre composte da 6 alpini cadauna e la loro gestione era per me la cosa più complicata perché ero un loro superiore ma loro erano militari professionisti mentre io lo ero per un periodo di 15 mesi perché dopo sarei tornato alla vita civile. Ciò nonostante avrei avuto la possibilità di fermarmi nell’esercito come ufficiale effettivo e non più di complemento come ero in quel periodo.
Soggiornavo presso l’hotel Aquila Nera, in centro paese, non perché fosse particolarmente economico, ma perché mi ero invaghito della figlia dei proprietari che però era già promessa a uno degli imprenditori della valle. Poco prima di essere assegnato al reparto a S.Candido la mia fidanzata mi aveva lasciato per uno che restava a casa perché non so per quale motivo non doveva fare il servizio militare, mentre io terminavo il durissimo corso per allievi ufficiali alla Scuola Militare Alpina di Aosta che non mi aveva lasciato energie neppure per piangere come avrei voluto. Avrei voluto dimenticarmi di lei e pensavo che un’altra ragazza avrebbe fatto al caso, ma con quella che avevo scelto non c’era speranza perché era guardata a vista da sua madre e dal suo promettente fidanzato. Una soddisfazione però me la presi la sera che lei mi raccontò che voci di caserma dicevano che era arrivato un nuovo comandante del plotone esploratori che era molto benvoluto dai suoi soldati. Siccome lei non sapeva quali mansioni io avessi, me lo disse pensando che si trattasse di un altro ufficiale e non certo di me.

Sass Pordoi 1982. L'attrezzatura da sci militare aveva fatto
passi da gigante: sci Maxel, attacchi Zermatt Nepal e
scarponi S.Marco Raid!


Quel mese di Gennaio stava passando abbastanza piacevolmente perché a breve ci sarebbero stati i campionati di Brigata di biathlon e con alcuni dei componenti del mio plotone ci allenavamo giornalmente e ci spartivamo i turni del soccorso piste.
Ero già stato in vacanza diverse volte con i miei genitori in Alto Adige e quindi sapevo benissimo che gli abitanti delle valli erano quasi tutti di etnia e lingua tedesca e che non avevano in simpatia gli italiani, o almeno queste erano le voci che giravano. Loro per noi erano crucchi  e noi eravamo walschen.
Questi luoghi comuni non mi hanno mai convinto e infatti ho sempre trovato persone buone e cattive in ogni etnia, quindi i miei alpini crucchi a me piacevano e cercavo di avere il rispetto che si meritava un popolo che suo malgrado si era ritrovato italiano dopo la prima guerra mondiale. Cercavo di far capire loro che eravamo tutti sulla stessa barca e che avremo dovuto cercare di trascorrere al meglio quell’anno di leva che la legge imponeva. Spesso firmavo dei permessi a quello che poteva essere un mio compagno di cordata per andarci a fare un’ascensione o una gita sci alpinistica, intanto non avevo di certo l’esigenza di andare in licenza fino a Genova vista la lontananza e questo contribuì a farmi vivere il posto e la sua gente anche al di fuori del ruolo militare che avevo.
Nei fine settimana quelli che avevano diritto a una licenza di almeno 24 ore raggiungevano spesso casa e chi aveva un automobile lo faceva guidando come un pazzo per avere più tempo da dedicare alla ragazza o alla famiglia. Gli incidenti stradali, anche gravi, non mancavano.
 Il Caporale Hartmann Daverda, oltre alla ragazza e alla famiglia, dedicava tempo alla sua passione per lo scialpinismo che aveva imparato nella sua bellissima valle al confine con l’Austria, la Valle Aurina. Anzi, se guardiamo una carta geografica noteremo che la Valle Aurina o Arhntal nel suo nome originale, altro non è che una penisola in territorio austriaco i cui confini sono una linea politica che nulla ha a che fare con l’effettiva geografia del luogo. E’ la parte più settentrionale del nostro paese, dove la cima Klockerkarkopf è stata rinominata Vetta d’Italia.

2024 Arhntal, verso la Sattelspitze,
sullo sfondo l'abitato di Prettau/Predoi


Io sono italiano ma uso più volentieri le denominazioni tedesche di questi luoghi perché sono quelle originali. Durante il fascismo ci fu un certo Tolomei che il Duce aveva designato come colui che avrebbe dovuto italianizzare tutti i toponimi tedeschi, spesso senza tradurre semplicemente il nome ma attribuendone uno di fantasia che nulla aveva a che vedere con il significato di quello originale.
Se nella storia si sviluppò un odio verso gli italiani da parte di molti alto-atesini (o sudtirolesi) il motivo va cercato anche nei modi autoritari, colonialisti e irriverenti verso la cultura sudtirolese che i politici italiani hanno usato fino agli anni ’80.

Nel 1956 si costituì in Alto Adige un gruppo irredentista tirolese che voleva l’indipendenza dall’Italia e che pose tra i suoi primi obiettivi, come gesto altamente simbolico, la distruzione della tomba di Ettore Tolomei. Fino alla fine del 1988 ci furono 361 attentati dinamitardi e/o armati con un totale di 21 morti e diversi feriti. Lo Stato Italiano, per combattere l’ondata terroristica, istituì una task force costituita da Carabinieri, Finanzieri, Poliziotti, Paracadutisti e Alpini che agiva nelle valli di confine con l’Austria perché molti dei terroristi andavano e venivano da quest’ultima.
Tra le fila nazionali c’erano ufficiali e sottufficiali spesso razzisti e un po’ esaltati. Ne ho conosciuto qualcuno restandone impressionato non proprio positivamente e uno di loro era un mio diretto superiore. Costoro parlavano dei sudtirolesi come avrebbero fatto i cowboys degli indiani d’America ed era evidente che un clima simile non avrebbe di certo favorito un rapporto civile tra i due gruppi etnici.

I primi di Febbraio del 1982 un venerdì sera consegnai dei permessi agli alpini che durante il fine settimana avrebbero avuto una breve vacanza dall’Esercito. Chi solo il sabato e chi, più fortunato, sarebbe rientrato la domenica sera in tempo per il contrappello che veniva fatto alle 23.
Il lunedì successivo all’adunata di tutto il Battaglione nel cortile principale della caserma Cesare Battisti la fila di una delle mie squadre aveva un “buco” perché un alpino mancava dal suo posto. Era il posto del vice-comandante di squadra, ruolo di solito ricoperto da un Caporale. Prima dell’alza bandiera uno scritturale di fureria della mia Compagnia mi avvicinò sussurrandomi che Daverda era morto sotto una valanga il giorno prima.
Ci dovemmo comporre velocemente per la cerimonia giornaliera in cui ogni singolo comandante di Unità riferisce al comandante del Battaglione eventuali novità.
Il tutto avviene in maniera assai formale e veloce con at-tenti, riposo e saluti al cappello senza lasciare spazio a ulteriori convenevoli che semmai possono poi seguire una volta terminata l’adunata nei rispettivi uffici dei comandanti.
Dovetti dire senza fronzoli o emozioni al Tenente Colonnello: 20 alpini presenti di cui uno assente perché deceduto in licenza.

1982 esercitazione con barella
Mariner sulle Torri di Sella


Rotte le righe, ognuno si dirige ai suoi compiti ma io dovetti passare per l’ufficio del comandante a riferire con più dettagli cosa fosse accaduto a Daverda.
Dovetti anche andare dai Carabinieri a denunciare l’accaduto e assieme chiamammo a casa del povero Daverda per sapere più dettagli e quando ci sarebbe stato il funerale.
Era chiaro a quel punto che tutto il mio plotone avrebbe dovuto essere, secondo me, a Prettau (Predoi) due giorni dopo al funerale del nostro amico Hartmann.
Non era così chiaro però secondo il mio comandante, che era uno di quelli che fino a poco tempo prima aveva fatto parte di quella Unità Speciale di Rinforzo per l’Alto Adige che contrastava il terrosismo. Alla mia richiesta di farci partecipare al funerale del nostro amico mi rispose che quella era una zona “calda” per l’attivismo sudtirolese e che non sarebbe stato prudente andare come militari proprio lassù. D’altro canto non concedeva un permesso a tutto il mio plotone per farci andare al funerale, quindi ci saremmo dovuti andare mentre eravamo in servizio! Ovviamente in divisa e con i mezzi militari.
Per me era la prima volta che perdevo un amico in montagna. Sentivo come un dovere il dargli un ultimo saluto e l’avrei fatto con tutti i compagni di caserma!
Hartmann era un tipo in gamba, ottimo sciatore, di poche parole, specialmente in italiano perché oltre a: fucile, zaino e licenza, non sapeva dire di più ma il suo sguardo intelligente era sufficiente per capirci e poi era sempre di buon umore e aveva carisma sugli altri. Per quello l’avevo fatto promuovere Caporale e anche se lui rideva del fatto che l’Esercito di un paese “nemico”, perché quella era la sua percezione, gli avesse addirittura dato delle mansioni di comando, sapevo che ne era anche un po’ fiero. Si vedeva da come si rivolgeva ai suoi compagni ai quali ironicamente dava degli ordini con voce marziale che puntualmente venivano derisi scherzosamente, lasciando però trasparire negli altri una sorta di ammirazione per quel ragazzo tarchiato che sugli sci era una forza della natura anche sulle nevi più difficili.

1982 Val Badia. Diedro Mayerl
Sass dla Crusc


 
Daverda aveva una sciata molto naturale e solo apparentemente aggressiva. Si capiva che comandava lui e non la neve. Teneva gli sci paralleli ma non uniti come si usava allora. Sciava con gli sci alla distanza naturale secondo la larghezza del proprio bacino, tecnica che di lì a poco sarebbe divenuta “ufficiale” perché garantisce un maggior equilibrio e un’azione sterzante in curva più efficace.

Era mitragliere e portava a tracolla la mitragliatrice MG 42/59 dal peso di una dozzina di kg più il nastro di cartucce! Durante un’esercitazione a Passo Montecroce Comelico si era lanciato giù da un canale ripidissimo in un bosco fitto di larici con ai piedi gli scarponi da sci d’ordinanza, che erano gli stessi in cuoio che tenevamo ai piedi in caserma, gli sci di legno con le lamine avvitate e l’attacco Silvretta-Kandahar, sparando (a salve) all’impazzata sul nemico mentre io scendevo lo stesso versante coadiuvato dal Sergente Costa e la sua squadra in cui un membro portava un lanciarazzi leggero anticarro (detto bazooka), ma su terreno aperto. Daverda ci copriva. Avevamo tutti lo zaino pieno di cose inutili, quindi piuttosto pesante, le tute mimetiche bianche in spesso cotone che non permettevano di certo movimenti sciatorii fluidi e il FAL (fucile automatico leggero, ma solo di nome) a tracolla, più le munizioni, qualche bomba a mano in tasca e l’elmetto d’acciaio calcato in testa. Per fortuna che eravamo giovani e forti! Dietro di me c’era sempre il fido radiofonista, un trentino di Tione che, oltre allo zaino sulla schiena e l’armamento d’ordinanza come gli altri, aveva appesa sul petto una radio RV3 per una buona dozzina di kg più l’antenna lunga 3.5m che si impigliava ovunque nel bosco. Eppure riuscivamo a muoverci abbastanza agilmente nella neve fonda fino a che ci ritrovammo su un versante dove la neve era durissima, la pendenza piuttosto ripida e dovevamo assolutamente ripararci dal tiro nemico. Andreatta, il radiofonista, slittò perdendo il controllo travolgendomi e insieme iniziammo a ruzzolare verso valle con tutte le nostre pesanti attrezzature. Ci arrestammo fortunosamente su un balcone da dove Daverda/Rambo poteva vederci ma non si spiegava perché fossimo uno addosso all’altro. Mentre ci districavamo cercando di darci un contegno mi scappò un: Andreatta che cazzo fai! La risposta fu: zio can, tenente, go ciapà l’giaz!

La sera, da Frida, sul lago di Dobbiaco, dove andavamo ogni tanto a berci una birra, dovetti offrire da bere per tutti.

Il tempo che mancava al funerale era sempre meno e il comandante non si decideva ad autorizzare la nostra partecipazione. Ci trovavamo in una situazione in cui avremmo fatto anche la cazzata di contravvenire agli ordini ammutinandoci, tanto era la convinzione che avevamo di andare a salutare l’ultima volta il nostro amico a casa sua. Lo riferii al Colonnello che, seppure contrariato, capì che nel nostro plotone c’era un forte sentimento di amicizia e di tristezza per avere perso un compagno di avventure. Perché sono lo sforzo e il disagio a creare le vere amicizie. Alla fine ci consentì di andare a Prettau ufficialmente, al funerle del nostro amico Hartmann.

1982 Hans Peter Steinwander sulla
Via Cassin, Cima Ovest di Lavaredo



La mattina presto feci preparare un autocarro Lancia ACL e un FIAT ACM sui quali prendemmo posto. A Febbraio in Alta Pusteria le temperature erano tutt’altro che alte. Direi che nella maggior parte dei giorni erano decisamente polari! A quei tempi la truppa viaggiava armata sul cassone degli autocarri con il telone sollevato per motivi di sicurezza, tanto più da quelle parti, e gli spostamenti erano un vero supplizio dato il freddo. Arrivati a Prettau parcheggiammo i due autocarri sotto la chiesa davanti agli sguardi stupiti degli astanti. Feci lasciare le armi sui camion con a guardia i due autisti, armati a loro volta. La funzione fu semplice e commovente pur nella sua freddezza teutonica e il prete ringraziò anche in italiano, cosa stupefacente, noi che eravamo intervenuti. Dopo la sepoltura ci fu un rinfresco, cosa per me inusuale, e tutto si svolse in un modo a me sconosciuto ma che in qualche modo mi faceva capire che c’era dell’affetto tra tutte quelle persone anche verso di noi in divisa “nemica”, e che la passione per la montagna ci teneva uniti ben oltre l’obbligo militare.

Nel 2021, in piena epoca Covid 19 andai a fare una gita di scialpinismo con un amico proprio sopra al paese di Prettau. Al ritorno chiesi all’ amico di fermarsi un momento con la sua macchina davanti alla chiesa attorno alla quale c’è un giardino costellato di tombe. In sudtirolo i cimiteri sono intorno alla chiesa. C’era quasi un metro di neve e cercare la tomba di Hartmann non era facile, anche perché non ricordavo dove fosse. Non la trovai e tornai alla macchina.
Nel 1983 a Finale Ligure avevo aperto una nuova via di arrampicata a Monte Cucco su una parete alta poco meno di un centinaio di metri. L’avevo chiamata Hartmann e ogni volta che risalgo con le pelli di foca sotto agli sci una laterale della Arhntal per raggiungere qualche cima, mi ricordo con nostalgia di quel sorriso irriverente.

Aprile 1982 Val Mesdì, Corvara.


domenica 12 novembre 2023

INVERNO 2024 SCIALPINISMO-CIASPOLATE-ICE CLIMBING proposte e attività su richiesta


PROVA LO SCIALPINISMO!

Se sei stufo/a del Luna-Park delle piste e vuoi imparare i rudimenti dello scialpinismo, o semplicemente fare una prova per vedere se ti piace, sappi che proprio sopra casa mia c'è una bellissima gita con pendii ideali per imparare sia la tecnica di salita che quella di discesa. E' il Monre Sief, (vicino a Arabba, a cavallo tra Alto Adige e Veneto) la cui cima è uno dei più bei balconi delle Dolomiti.
L'attrezzatura si può noleggiare e il costo della guida si divide tra i partecipanti.

Monte Sief 2424m.





Lezioni di scialpinismo




Ice Climbing a Colfosco e dintorni



Tutte le proposte in programma sono su richiesta di un minimo di 1-2-4 persone o più, e per i costi fa fede lo schema relativo a ogni partenza.

Grandes courses in Dolomiti

Ovviamente sono prenotabili singole giornate o più giorni con la guida.

VAI AI PROGRAMM





Contatti: info@marcellocominetti.com   Mob. +39.3277105289

martedì 5 settembre 2023

AUTUNNO SARDO PER CHI HA BUON GUSTO!



 AUTUNNO SARDO PER ARRAMPICATORI E/O ESCURSIONISTI



DUE PROPOSTE ORMAI COLLAUDATE PER RECARSI SULL'ISOLA NEL PERIODO MIGLIORE, OVVERO QUANDO LE TEMPERATURE SONO MITI MA NON TROPPO ALTE PER MUOVERSI PIACEVOLMENTE E L'ACQUA DEL MARE CONSENTE ANCORA BAGNI MEMORABILI.


cliccando sulla proposta vai al programma dettagliato



Pedralonga, Cromosomi Corsari, Baunei
1) 4 GIORNI DI ARRAMPICATA PER SALIRE 4 VIE SIMBOLO (Max difficoltà 6a) dall 1 AL 4 NOVEMBRE.












lunedì 19 giugno 2023

TREPINDANGA tappa dolomitica al castello di Andraz


La mostra prosegue con la tappa dolomitica al Castello di Andraz, un luogo decisamente unico per storia, bellezza e ubicazione. Con l'occasione i visitatori avranno la possibilità di visistare un museo di straordinario interesse.
Ringrazio, oltre ai miei sponsor: Patagonia, Primoli e Dolomite Mountains, il Comitato Ciastel Andrac per l'ospitalità.

Ci vediamo il primo di Luglio alle 17.30 per l'inaugurazione.
Vi aspetto numerosi.

PER INFORMAZIONI GUARDATE QUI

 

lunedì 5 giugno 2023

LE BELLE VIE: DIMAI-EOTWOS ALLA TOFANA DI ROZES, DOLOMITI AMPEZZANE

 

A.Bettoli tra i due anfiteatri

Quando voglio fare un bel regalo a una persona cara appassionata di montagna e di scalata su roccia, la porto su questo splendido itinerario aperto nel 1901 dalle guide cortinesi A. Dimai, G. Siorpaes e A. Verzi che accompagnavano le baronesse Ilona e Rolanda Von Eotwos. La cosa non deve trarre in inganno perché le due nobildonne erano quantomai agguerrite scalatrici e si resero protagoniste dell'epoca d'oro dell'esplorazione verticale delle pereti rocciose di molte cime dolomitiche.

L'esposizione a sud e la bellezza della montagna sulla quale si svolge, insieme alla complicatezza del percorso, fanno di questa via una delle classiche delle Alpi tutte e scalatori da tutto il mondo ne stringono ogni estate gli appigli.

L'inizio del traverso. Inverno 2023
L'ho percorsa in ogni stagione dell'anno, in cordata con moglie, figli e amici vari, da solo e con ogni condizione meteo, come guida e per il puro piacere della scalata e nonostante l'abbia fatto molte volte, riesco a considerare questo itinerario storico come uno dei più appassionanti da salire come guida. 

Se scalate sul quarto grado "alpino" e avete una buona resistenza, perché la via è lunga un migliaio di metri, dovrebbe rappresentare il vostro sogno alpinistico al pari del Cervino, solo per fare un esempio facilmente comprensibile e di impegno analogo.

La via si sale in giornata partendo dal Rifugio Dibona da dove l'attacco dista circa 45 minuti di cammino. La discesa avviene lungo la via normale: un sentiero con qualche passaggio di primo grado. Lungo la via l'arrampicata è quantomai varia ma sempre entusiasmante per la varietà appunto, di ambienti e paesaggi corcostanti che cambiano sempre. Non manca un'affilata cresta finale per raggiungere la vetta a 3244m.

QUI TROVATE LA SCHEDA TECNICA DELLA VIA

Per organizzare l'ascensione della via con 1/2 alpinisti potete contattarmi con un po' di anticipo al recapito che trovate qui in alto a destra.

La via si può percorrere anche in inverno nelle giornate di sole con condizioni ideali di innevamento con un impegno complessivo decisamente maggiore rispetto all'estate.

venerdì 21 aprile 2023

UNA MOSTRA FOTOGRAFICA DALLO STRANO NOME, Ma...

Ruta 40 in bici, Patagonia, Argentina



Grazie al sostegno di :




e  




e all'allestimento, stampa e coordinamento di 

di Genova

sono contento di invitarvi alla mia mostra fotografica su circa 4 decenni di fotografie:

TREPINDANGA 

storie e immagini 

Le montagne sono solo lo sfondo

 

In slang lunfardo-argentino si definisce trepindanga un breve tratto di rocce da superare lungo un sentiero su cui si cammina. La trepindanga prevede anche l’uso delle mani ed è un ostacolo da superare se si vuole andare avanti. A volte fa paura. Se si affronta un’avventura si incontrerà anche la trepindanga perché non tutto sarà prevedibile come certi vorrebbero.

Non c’è avventura se qualcosa non va storta e la trepindanga altro non è che la metafora degli ostacoli che la vita ci presenta anche quando non vaghiamo per passione (per me anche per professione) tra i monti.

Quando mi sono messo lì per selezionare le foto per questa mostra ho visionato in circa 2 mesi quasi 18.000 diapositive con l’intenzione di tirare fuori una serie di immagini di alpinismo:  dalle Dolomiti dove vivo, a varie montagne sparse per il mondo. Mentre rifacevo questo viaggio, perché è stato così,  sono nati in me molti dubbi e addirittura ho pensato per un momento durato qualche giorno, che non avrei fatto nessuna mostra. Mi sono detto invece che avrei scelto quegli scatti che mi ricordavano qualcosa di ormai perduto ma che nella mia memoria avevano lasciato un segno profondo.

Ugualmente le foto erano tantissime ma mi imposi di fare una selezione ferrea riducendo il numero sempre più e drasticamente. Mi sono anche detto che tra le foto scartate probabilmente c’erano gli scatti migliori, ma migliori per chi?

Una sera, scorrendo delle immagini di un famoso fotografo francese nel silenzio di casa mia, ho colto le parole di un pittore spagnolo che commentava puntigliosamente quelle fotografie. La sostanza era che chi osserva una foto è come un voyeur che fa parte di un quadro in cui c’è lui stesso mentre osserva la foto e quindi siamo tutti dentro quella foto che fa parte di un quadro.

Quindi la mia scelta, vi piaccia o no, è stata fatta grazie a questa ispirazione e anche lo sguardo del mio gatto mi ha convinto che fosse quella la giusta via.

Le mie foto sono spesso state riprese mentre facevo il mio lavoro di guida alpina, sulle montagne anche di paesi lontani, che per essere raggiunte prevedevano il percorrere varie situazioni che con la montagna nulla avevano a che fare. Spesso lo scatto partiva dalla coda dell’occhio più che da una composizione dell’immagine ponderata. Mi piace definirle come il risultato di un frettoloso reportage.

Riportata alla vita, la Trepindanga, è un ostacolo da superare ma anche un diversivo che si alterna alla monotonia di una normale camminata.

Nelle mie foto, riguardandone molte scattate diversi anni addietro, ho trovato questa analogia attraverso le diverse situazioni che ritraggono. Quindi, dovendone fare una selezione partita da qualche migliaio di diapositive, ho cercato di scegliere, sicuramente non riuscendovi al cento per cento, quelle che mi riportassero a situazioni particolari nell’ambito di un viaggio, una scalata o una visita a persone e luoghi a caso. Sempre che il caso esista poi davvero.

Mi sono aiutato con delle  didascalie per portare ulteriormente l’osservatore nell’atmosfera evocata da ogni immagine e per contestualizzarne la posizione nel tempo e nello spazio. Anche se sono convinto che una foto ti dica qualcosa di bene o di male con un semplice colpo d’occhio.


VI  ASPETTO!

Marcello Cominetti(Genova 1961) alpinista, viaggiatore e guida alpina di professione  si appassiona alla fotografia grazie allo zio paterno Giuseppe che lo introduce al bianco e nero e alla camera oscura. Nel 1984 lascia Genova per Corvara, nelle Dolomiti, dove vive tutt'ora. La sua casa è stata lungamente il "porto" da cui progettare viaggi, trekking e spedizioni sulle montagne del mondo. Di indole analogica, non è su nessun social (a parte il suo sito internet) e dedica tutto il suo tempo alle attività nella natura, tanto per lavoro quanto per passione.
Musicista di strada, h
a scritto e fotografato per:
ALP, Rivista della Montagna, Meridiani, Panorama Travel, Gran Gourmet, National Geographic, The Himalayan, Chaltén Hoy, Gognablog, Planetmountain. Freerider, Pareti.