giovedì 19 novembre 2009

LA MONTAGNA E' SOLO LO SFONDO


Sono nato 15 anni dopo l’ultima guerra, a Genova, nel bel mezzo del centro storico più grande del mondo.
Con la guerra sono cresciuto perché i miei genitori me ne parlavano spesso. Guai a non mangiare il pane e se un pezzo cadeva per terra e bisognava buttarlo via, prima lo si baciava, come per salutare un parente caro in partenza.
A Genova c’ erano una sacco di macerie dietro a recinti di tavole con cartelli con su scritto : divieto d’ accesso. Ce n’era uno vicino a casa mia, era un cumulo di costruzioni bombardate dagli aerei americani, prima che diventassero nostri amici e oggi è un quartiere universitario.
Dalla finestra di camera mia vedevo i bacini di carenaggio del porto, con le navi in riparazione, e sullo sfondo l’ampiezza dell’ orizzonte.
Prima del porto, c’era una caserma dei pompieri che vedevo spesso in esercitazione.
Si arrampicavano su una torre da cui si lanciavano su un telo, correvano e srotolavano manichette, facevano acrobazie che stavo a guardare finché non la smettevano.
Da grande mi sono appassionato al viaggio e alle scalate. Ecco: credo che tutto sia partito dalla vista di quella finestra.
Ho vissuto sempre in maniera semplice, dando alle cose il loro vero valore, complice il pragmatismo che regnava a casa nostra arricchito anche da un totale rifiuto dello spreco e di ciò che non si credeva indispensabile. Tirchieria la chiamano gli ignoranti, perché in realtà è parsimonia, dote rara fagocitata dalla corsa alla crescita.

Quando a 5 anni mi mandarono al catechismo mi ricordo di una maestra alta e secca che si chiamava Lidia e che era la sorella del prete.
Ci disse con la massima naturalezza che Dio c’ era sempre stato e sempre ci sarebbe stato. Alzai la mano perché non mi era chiaro.
Ero piccolo ma lo ricordo come fosse ora.
Lidia mi ripeté quello che aveva appena detto aggiungendo: perché è così.
Io replicai. Mi potevo spiegare, assieme a molti altri misteri simili che avevo ascoltato, che ci fosse uno immortale, uno che aveva la barba bianca, era vecchio –così era raffigurato Dio sul libretto- e mai moriva, ma da qualcosa doveva pur essere nato.
La risposta fu identica all’ affermazione irremovibile di prima: Dio c’ è sempre stato e sempre ci sarà!
Mi faceva male la testa, mi sembrava che il cervello si torcesse su se stesso quando provavo a tornare indietro nel tempo immedesimandomi in Dio, che per me era un vecchio canuto condannato a non stare tranquillo.

Le mie prime letture furono un libro di favole dei fratelli Grimm, di cui mi piaceva l’ odore delle pagine ingiallite, stampato alla fine dell’800. Poi ci furono le letture scolastiche, e in prima media lessi il diario scritto da Pigafetta sul viaggio intorno al mondo di Magellano. Quello sì che era un bel libro, avventuroso e interessante come un vero viaggio.
Poi lessi “Un anno sull’ altipiano” di Lussu e anche i racconti sulla guerra mi appassionavano. Nel frattempo mia nonna mi regalò una vecchissima copia di “Le mie Prigioni” di Silvio Pellico, che leggevo di quando in quando. Tutti questi libri, in verità pochi, li ho ancora.
A casa c’ erano Cuore, I ragazzi della via Paal, Piccole Donne, Tom Sawyer : li iniziavo e li lasciavo perdere dopo poche pagine.
Poi mi toccò leggere I promessi sposi e anche lì feci una domanda all’ insegnante, che era: ma fu Renzo Tramaglino a raccontare questa storia a Manzoni per poterla scrivere così dettagliatamente?
La risposta fu del tipo di quelle datemi al catechismo, almeno per l’ effetto che provocò in me. Mi disse che era un romanzo, una storia ambientata in posti e situazioni reali ma totalmente inventata. Chissà perché bisognava inventare una storia quando nella realtà ce ne sono già così tante di belle e di brutte?
A 14 anni l’alpinismo si impadronì totalmente dei miei interessi assieme alla fotografia e alla pesca, ma era sulle montagne che volevo andare appena possibile. Mi scarrozzavano degli amici più grandi che avevano la macchina e un po’ di esperienza, così ogni domenica tornavamo a casa più o meno vivi.
Francesco, il più carismatico, mi prestò un libro dicendomi che era bellissimo e mi sarebbe piaciuto di sicuro.
Lo divorai, perché raccontava di due cordate che scalavano una parete nel gruppo del Monte Bianco che conoscevo e si parlava di chiodi e moschettoni ma anche di idee e sentimenti. Dopo qualche giorno Francesco mi chiese se allora il romanzo che mi aveva dato mi piaceva? Romanzo? Vuoi dire che quella non è la vera storia della prima salita della Via Jackson sulla nord delle Droites? Mi cadde in testa il mondo. Per me l’ alpinismo era praticamente tutto e la sua storia mi ha sempre appassionato, ma la storia è qualcosa che è accaduta davvero e non il frutto della fantasia di qualcuno che magari non aveva stretto quegli stessi appigli ma aveva sempre visto quella parete col binocolo dal fondovalle.
Certo che per raccontare una storia così ci vuole una grande capacità, ma, secondo me, ce ne vuole molta di più per salire quella parete e poi raccontarne con magia.

La comunicazione si è compressa nei tempi dall’ invenzione del telegrafo. Ha accelerato con il telefono, poi con il fax, dopo più di 70 anni, e dieci anni più tardi è arrivato internet. E siamo a oggi. Non abbiamo il tempo di immaginare perché la notizia che aspettiamo arriva prima. Soffriamo meno a volte, ma spesso invece siamo sottoposti a un carico di informazioni di cui solo poche hanno, per ogni singolo, importanza.
Quando Jules Verne scriveva del suo Viaggio al centro della Terra poteva lavorare tantissimo con l’ immaginazione, così come Salgari e poi tutta la letteratura fantastica da Asimov a Crichton. Ma già i nostri contemporanei dovevano immaginare meno cose perché la Luna si era già vista, l’uomo volava e il mio libro patinato “Il mondo del futuro” era già vecchio quando è nato mio figlio maggiore. Eppure quando lo leggevo c’ erano cose che mai avrei potuto immaginare che venissero inventate, usate e buttate. Il pc è una di queste. Ditemi se è poco!

L’immaginazione si è fusa con la comunicazione in tempo reale e chi narra deve ricorrere a qualcosa che non sia il viaggio di Marco Polo o dibattere sull’ esistenza dello Yeti, perché la terra è stata esplorata già tutta e le vicende ambientate nei giorni nostri devono proporre elementi che catturino l’attenzione e i sentimenti, anche per vendere più copie e incrementare gli indici d’ ascolto, nella logica imperante della crescita a tutti i costi.

Oggi in pochi sognano una casa per viverci all’ ultimo piano in Manhattan, piena di automatismi. I più sognano una casa col prato intorno, il cane che abbaia al posto del ring elettronico del campanello, e spazio, tanto spazio e magari anche un po’ di silenzio. Le pareti di legno e il fuoco nel caminetto scoppiettante. In vacanza la gente cerca questo, suppongo perché gli piace, no?
Oggi per immaginare la bellezza occorre fare marcia indietro, ripercorrere quello che c’ è già stato, forse arrivare a pensare che Dio c’ è sempre stato senza arrovellarsi come succedeva a me da piccolo.
Oggi accetto di più che milioni di esseri umani pensino rassegnati una simile boiata solo per fugare la paura della morte e soprattutto della vita che hanno intorno. Me lo spiego, ma non lo condivido. Esattamente come quando avevo 5 anni.

Oggi i sentimenti esistono ancora ma sono strozzati dalla velocità con cui scorrono anche quando sono veri e profondi. Stiamo attenti, rallentiamo e non succederà nulla di male.
Raccontare storie di oggi funziona perché siamo tutti un po’ (io no) alla ricerca di un piedistallo su cui non vacillare. Ci accontentiamo, ecco. Ci accontentiamo di quello che ci arriva, non andiamo a cercare noi quello che ci serve di solito, visto che ci arrivano milioni di cose e noi possiamo scegliere. Ma non è la stessa cosa di quando le cerchiamo noi e poi le troviamo e le teniamo strette a noi con amore, e pure gelosia a volte, e se capiamo che sono grandi e ci fanno respirare. Breathe in the Air non è solo una bella canzone, è un inno alla vita e una poesia maledettamente terribile e reale. Come un racconto di Verne, contiene moltissima immaginazione legata alla speranza delle cose più banali di tutti i giorni, quelle che tutti capiscono e vivono e che soprattutto fanno vivere.
Un romanzo attuale sopravvive solo perché un malcontento diffuso ci imbavaglia. Uno ci si immedesima soprattutto se la storia è truce. Uno che va a comprare il latte non fa scalpore mentre se lo stesso salta dalla finestra alla parkur dopo essersi trombato la vicina prima di farsi una canna e andare a scuola, questo si che convince e cattura.

D’altronde non ricordo più quale famoso, che non vuol dire anche bravo e buono, scrittore disse che se scrivi qualcosa che poi non legge nessuno è come non averla scritta. Nulla di più falso. Scrivendo si fermano i ricordi prima di tutto per se stessi, i lampi di pensiero, le sensazioni che possono non tornare più, come nella fotografia. Ma la fotografia, per fermare un ricordo o comunque un fatto, ha bisogno di soggetti reali, anche elaborati a volte, ma che esistono.
E’ forse l’ unica cosa a cui giova la velocità. Quella dell’ otturatore. La Contax di Robert Capa negli anni ‘50 aveva il tempo più veloce pari a un cinquecentesimo di secondo quando una mina antiuomo nell’allora Indocina, oggi Vietnam, ridusse in polvere entrambi. Oggi una reflex che quasi tutti possono permettersi ha il sensore che viaggia a un/16.000 di secondo, ma sapete quant’è?

Di pari passo le storie si sono svuotate di immaginazione e riempite di fatti presi dalla realtà piatta e manipolata per renderla appetibile al lettore di oggi, uno che spesso ha fretta, poco tempo, problemi sessuali, detesta il suo lavoro e il capufficio, si dimentica dei figli se non quando gli può comprare un regalo. Uno scrittore odierno di successo si destreggia con davvero pochissima fantasia e immaginazione –già che non esistono quasi più- infilando storie di sesso qua e là per risollevare l’attenzione precipitata sospinta da fatti assolutamente insignificanti che riempiono pagine e pagine. Come se un libro si vendesse a peso. Cosa che è proprio così, più pagine ci sono più è alto il prezzo. Sarà democratico ma è pure parecchio ignorante. Preferirei leggere meno e pagare più caro qualcosa che mi mostri che la vita, bella o brutta che sia, ha una faccia lenta e umana, senza consumo, non necessariamente estrema ma capace di emozionarmi come la storia di Pigafetta o quella di Mohammed Alì, che rispettivamente il giro del mondo l’aveva fatto davvero e che Foreman a Kinshasa al tappeto ce lo aveva lasciato eccome, nonostante tutto.
mc