Foto Birgid Mander |
Al di là del bene fisico che fa camminare su un sentiero di montagna, ho sempre riscontrato che, mentre si è immersi nello sforzo monotono del mettere un piede davanti all’altro, arrivano, come se lo avessimo pensato in anticipo, pensieri positivi e idee.
Lo stesso accade durante le gite sci alpinistiche, dove lo sforzo e il
movimento durante l’ascesa, non si discostano molto da quello che si fa quando
si cammina.
Sono entrambe attività che mi succede di svolgere piuttosto spesso, per il mio
lavoro di guida alpina o per il mio piacere personale. Non importa quanto
questo tipo di attività duri in termini di tempo, ma importa che la partenza
sia voluta anche quando la pigrizia suggerirebbe di stendersi sul divano,
attività che considero remunerativa al recupero, solo se ci si è stancati
prima. Altrimenti la sera avremo un senso di inutilità del vivere che però non
è ciò di cui vorrei parlare ora.
Foto Michele Barbiero |
I pensieri che si materializzano nella nostra mente mentre camminiamo possono essere di vario tipo, ma ultimamente ce n’è uno che mi ricorre in testa da molte gite, quindi voglio scriverne perché non si sa mai che magari non venga più a visitarmi piacevolmente la mente. In verità si tratta di pensamenti che ho da decenni, ovvero da quando mio figlio maggiore Tommaso aveva pochi mesi di vita e con sua madre eravamo nella costante ricerca confusa di qualcosa che lo facesse stare bene. Siccome a noi giovani genitori piaceva stare all’aria aperta, anche lui si ritrovava costretto a stare fuori con noi, convinti che fosse una buona occasione per assimilare dalla natura insegnamenti che di molto oltrepassano il semplice, ma indispensabile, respirare aria buona.
Tommaso aveva meno di un anno ma camminava già o comunque si arrangiava a gattonare laddove l’irregolarità del terreno non gli garantiva sufficiente equilibrio. Tra gattonaggio e camminata in posizione eretta o quasi, riusciva a spingersi anche su facili roccette, cespugli, greti di ruscelli e montagnette erbose, grazie al fatto che la nostra sorveglianza non era poi così stretta.
Mia figlia Isabel |
Gli piaceva essere lanciato in aria o sul letto da distanze sempre maggiori, cosa che divertiva anche me, ma un giorno si ruppe un braccio cadendo malamente tra dei cuscini. Glielo ingessarono e non ne fu per nulla felice, tanto che nessuno poteva toccargli il gesso, pena l’essere preso a urla di disprezzo.
Con mio figlio Tommaso |
Mentre lancio in aria mio figlio Foto Elisabetta Marinaro |
I lanci per aria, però, continuavano, perché ci piacevano e
ci facevano fare grandi risate.
Realizzai che durante il lancio per aria del bambino, come di qualsiasi altro
oggetto, c’è un istante in cui il corpo si ferma nell’aria prima di iniziare a
precipitare nuovamente verso il basso. E’ un momento che dura una frazione di
secondo, ma si può considerare, pur nella sua brevità, come un momento in cui
si è immobili nell’aria. Situazione particolare in cui anche i fluidi del
corpo, sensazioni comprese, hanno un cambio netto di direzione o un arresto
come di riflessione.
Franz Salvaterra lancia sua figlia Lisa. Foto Chiara Stenghel |
Me ne accorsi perché captai negli occhi di mio figlio come
un lampo di meraviglia misto a stupore e saggezza. Quando lo riafferrai sotto
le ascelle eravamo felici come sempre, ma notai che qualcosa era successa.
Vedere il mondo da lassù di quell’istante immobile ha sicuramente avuto un suo
effetto che a me è sembrato di universale assorbimento di tutto ciò che ci
stava attorno, compreso il senso di sicurezza infuso in mio figlio dalle mie
mani che lo riafferravano prima che si schiantasse a terra.
Ho sempre giocato in questo modo con i miei figli perché
sono sempre stato certo di riprenderli al volo anche se avrei potuto sbagliare.
Sono stato conscio di entrambe le situazioni ma evidentemente la prima ha
sempre prevalso sulla seconda, altrimenti avrei evitato.
Penso anche che una manovra simile possa trasmettere in un bambino piccolo una sicurezza interiore che dal genitore transita come per osmosi ai propri figli. Certi genitori non farebbero mai un gioco simile per paura che il pargolo caschi a terra facendosi male, ma questa è un ipotesi che non mi ha mai sfiorato. Non suggerisco a nessuno di farlo se già non gli era venuto in mente naturalmente.
Alessandro Gogna lancia sua figlia Petra. Foto Bibiana Ferrari |
D’altronde nella vita quante volte capita di dover prendere decisioni che possono avere anche conseguenze estremamente negative? Si tratta della vita stessa e del fatto che nulla arriva gratis, bisogna sempre mettersi in gioco se si vuole ottenere qualcosa a cui si tiene.
Mi sembra che i ragazzi che da piccoli sono stati lanciati in aria dai genitori abbiano qualcosa che li distingue dagli altri. Non lo noto solo nei miei figli ma anche negli altri che hanno oppure no, subìto simili trattamenti.
Non potevano opporsi di certo, ma penso che sia stato bene
così.
Anche mio padre mi lanciava in aria da piccolo. Forse sono caduto.