Al nostro gruppo degli Scout, dopo una campagna per
raccogliere iscritti che non ricordo come si svolse, si aggiunse in autunno un
elemento degno di nota.
RL era un bel giovanotto poco più che ventenne, simpatico, incantava tutti con
i suoi racconti, specie le ragazze. Di nobili origini possedeva case, tenute e
castelli in ogni località di grido e aveva, a dir suo, un’attività sessuale che
a tutti noi sembrava notevole.
Ovviamente si muoveva su lussuose auto con autista, solo sulla Lamborghini
Miura guidava lui, era un campione in diversi sport e vestiva capi di marca e
alla moda casual di allora.
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Freeride anni '80 |
Arrivato l’inverno lo invitammo a passare una domenica con noi sugli sci nella
località di Artesina, piccola e modesta stazione delle Alpi Marittime. Accettò
con un po’ di riluttanza e ci disse che si sarebbe presentato all’appuntamento
con una macchina “adatta”.
Era ancora buio quando ci incontrammo al casello di Genova Ovest presso la
concessionaria Fiat e RL non si presentò con la jeep che ci immaginavamo, bensì
con una Autobianchi A112 Abarth da 58 cavalli rossa e nera.
Non si trattava di una fuoriserie ma era comunque una macchina fighissima e io
vi presi volentieri posto.
Gli altri occupavano la seconda A112 amaranto di Maurizio e la Fiat 850 Coupé
blu notte di Firpo.
Imboccata l’autostrada, RL non risparmiò di tirare bene le marce per dimostrare
di che pasta era fatta la sua scattante autovettura, costringendo gli altri che
seguivano a superare i limiti che ci davamo per rientrare nel rosicato budget
di cui disponevamo che prevedeva di non consumare più di tot carburante e
quindi di stare sotto i 100 km all’ora.
Il piccolo convoglio avanzava brillantemente verso Savona e poi Mondovì lungo
la vecchia autostrada per Torino dalle corsie con sorpasso alternato,
pericolosissima, si diceva, ma che a noi mai sembrò tale.
Arrivati a destinazione e acquistati alcuni skipass (altri venivano falsificati
abilmente, sempre per risparmiare) inforcavamo gli impianti per smettere di
sciare solo quando avrebbero chiuso.
Bisogna dire che per noi sciare significava una sola cosa: metterci nei guai e
combinare dei grossi casini. Le piste a gobbe (quelle lisciate di oggi non
esistevano ancora) ci piacevano fino a un certo punto perché prevalentemente ci
infilavamo nei boschi o comunque giù da pendii fuoripista. Saltavamo dalla
seggiovia, andavamo all’indietro sullo skilift o in 2 o 3 alla volta,
costruivamo salti sfinendoci dalle botte che prendevamo cadendo e ricordo una
sensazione di umido costante addosso perché i vestiti erano sempre bagnati
dalla neve fonda in cui rotolavamo facendo la lotta, in cui cadevamo
lanciandoci dagli alberi o semplicemente sciando alla massima velocità per
esplodere in tragicomiche nuvole bianche.
RL aveva sempre sciato col maestro o con campioni e ci diceva che quello non
era sciare, ma tentava di seguirci per non restare solo e in breve tempo fu
esausto. Approfittò di una breve pausa durante la quale mangiammo i panini preparati dalle nostre
mamme, per riprendersi un poco, ma si vedeva che le gambe non rispondevano più da
tempo alla volontà del loro padrone, figuriamoci gli sci…
Dopo l’ennesima caduta a ribaltoni nella neve fonda, RL era sull’orlo dello
sfinimento mentre noi altri eravamo solo preoccupati perché di lì a poco gli
impianti avrebbero chiuso.
Partimmo quindi per un’ultima risalita per scendere fuoripista, ovviamente,
alla “merdaccia chi arriva ultimo”.
L’aria di mare si faceva sentire da un pezzo e la neve, polverosa al mattino,
nel pomeriggio era diventata cartongesso, ma noi, nulla ci poteva fermare! RL prese
velocità, perse completamente il controllo e fece l’ennesima spettacolare caduta:
il suo corpo sembrava un manichino vuoto che si torceva e avvitava su se stesso
fino a sbattere al suolo violentemente. Non si muoveva più, era morto! No,
muoveva un braccio, la faccia sfregiata era sotto la neve macchiata di sangue. Gli
usciva un rantolo dalla bocca riempita dalla neve. Cercammo di aiutarlo ma se
lo toccavamo urlava come una scimmia impazzita. A quei tempi alla chiusura
degli impianti non passava nessun controllo piste di sicurezza e stava
diventando velocemente buio. Chiamare soccorso era l’ultima delle cose che ci
sarebbe venuta in mente. Tutto era deserto e immobile e bisognava scendere in
qualche modo. RL si contorceva dal dolore e piangeva mentre noi lo trascinavamo
fino al fondovalle tirandolo per la giacca a vento fradicia e i suoi piedi
giravano a 360 gradi come quelli di Pinocchio. Ma RL non era un cartone
animato. Dal ginocchio in giù le gambe non sembravano più le sue tanto
strisciavano sulla neve seguendone le asperità senza reagire.
Arrivati al parcheggio ci ingegnammo per il trasporto del ferito. Costruimmo
una specie di barella con dei cartoni recuperati dai cassonetti dei rifiuti per
poter sdraiare RL sul sedile dell’850 di Firpo, l’unica con i sedili
ribaltabili. RL era allo stremo, sembrava un ferito di guerra di quelli che si
vedevano nei film.
Neanche a dirlo Sandro, il più grande della nostra compagnia, inforcò con
Libero la A112 Abarth di RL per correre a Genova, vedere quale velocità massima
poteva raggiungere quel piccolo bolide e per avvisare al telefono i familiari
di RL. Telefonare da Artesina sarebbe costato troppi gettoni telefonici…
Le curve per scendere a Mondovì erano una tortura per RL che sballottava al mio
fianco, io cercavo di immobilizzarlo ma lui urlava di dolore e non voleva
essere toccato in nessuna parte del corpo. Firpo alla guida cercava argomenti
che secondo lui potevano distrarre RL dai suoi dolori lancinanti: la versione
Coupé della Fiat 850 non era come la sua omonima berlina ma vantava un motore
di ben 1000 cc e soprattutto, trattandosi di un’auto sportiva, aveva
sospensioni molto più dure! Ecco il perché di quei sobbalzi, dolorosissimi per RL, che io cercavo di
confortare facendogli mordere uno straccio tutto sporco trovato sotto al
sedile.
Imboccata l’autostrada, al principio tutto sembrava filare meglio ma durò
pochissimo perché poco dopo iniziò una serie di viadotti e sulle giunzioni tra
le parti di cemento armato che li compongono le sospensioni dell’850 Coupé
diedero il meglio di sé ricordando a RL ancora una volta che anche quella,
oltre alla sua, era un’auto sportiva.
Una consuetudine alla quale non potevamo venire meno, pena lo sforare dal
nostro budget domenicale, era quella di fare tutti i tratti in discesa a motore
spento. Firpo non era uno spericolato, tra noi era forse il più calmo e
prudente, ma per non perdere l’abbrivio non toccava mai i freni e, se serviva, si
lanciava pure in sorpassi a motore spento tra le corsie del sorpasso alternato
con la massima naturalezza. Diceva che per non scaricare la batteria, che a
motore spento non veniva ricaricata dalla dinamo, non poteva tenere accesi gli
anabbaglianti e quindi andavamo con le
sole luci di posizione e i sorpassi
erano un azzardo pazzesco.
Finalmente arrivammo all’ospedale Galliera di Genova. Eravamo tutti nella sala
d’aspetto del Pronto Soccorso mentre gli infermieri adagiavano RL su una vera
barella e lui ci guardava in lacrime e con gli occhi sbarrati, felice di essere
finalmente sfuggito alle nostre manovre poco delicate.
Ce ne stavamo con l’aria mesta ad aspettare il padre di RL che era stato
avvertito al telefono, ci aspettavamo un nobiluomo con Mercedes nera o con una
Lancia Fulvia 2000 grigio metallizzato, ovviamente con autista in livrea. Grande
fu la nostra sorpresa quando da una Fiat 850 berlina scese un ometto che
correndo verso il Pronto Soccorso gridava in dialetto genovese “duv’e u l’è mèe
figgiu”. Fu allora che scoprimmo, con disappunto e meraviglia, che il padre di
RL faceva il portuale e che il figlio, poveraccio, aveva riportato fratture
scomposte e a spirale di tibia e perone di entrambe le gambe.
Viaggiò in stampelle per mesi e mesi, fu sottoposto a numerosi interventi
chirurgici e non lo vede
mmo mai più.